Headed for success
a
25 fotogrammi al secondo.
Dal
2009 al 2013 ho scattato 21.328 fotografie.
Sto
parlando di file .jpg.
I
miei genitori conservano negli album le loro fotografie di quando erano
giovani, tenute ferme da angolini di plastica. Negli ultimi album ci sono
anch’io, che mi esibisco in alcuni grandi classici: il primo bagnetto, sulla
giostrina in sella ad una moto, paletta e secchiello in mano e i piedi a bagno
in mare, cose così. Ma torniamo a noi.
Anche
prima del 2009 ho scattato molte fotografie.
Le
conservo in cartelle dentro altre cartelle, annidate in hard disk esterni.
Limitiamoci
agli scatti tra il 2009 e il 2013.
Calcolatrice
alla mano.
In
un anno ci sono 365 giorni.
365
giorni per 5 anni fa 1.825 giorni.
21.328
diviso 1.825 fa 11,686575342465753 fotografie al giorno, insomma: un po’ più di
11 fotografie e mezza al giorno.
Una
foto ogni due ore, dal 2009 ad oggi, ininterrottamente. Cosa avrò mai avuto da
fotografare. Quale ansia mi ha fatto premere compulsivamente il pulsante dello
scatto. Che cosa temevo che, da un istante all’altro, sarebbe andato perso e
quindi andava salvato, conservato nella sequenza di numeri di una fotografia
digitale da scrivere su un supporto di memoria esterna rispetto a quella del
mio cervello.
Non
ho voglia di scorrere tutte queste fotografie.
Potrei
dividerle in categorie, a prescindere da quando sono state scattate. Alcune
sono fotografie di famiglia: mio fratello, parenti, amici. Altre di luoghi dove
sono stato, occasioni, momenti che mi stavano ispirando, ragione per cui:
scattare, e immagazzinare. Altre sono strettamente legate all’arte: fotografie
di miei quadri, installazioni, eventi artistici. Aggiungo per ogni evenienza
una categoria che potrei chiamare: altro. Qui dentro ci sono tutte le
fotografie sbagliate, casuali, che non sono venute come volevo, scartate, di
cose che magari poi, a rivederle in seguito, non erano così importanti, o fonte
di ispirazione così forte.
Impossibile
liberarmi anche di quelle.
Disposofobia,
accumulo compulsivo, nella sua variante fotografica.
Anche
volendo, non avrò mai tempo di rivederle tutte.
Che
cosa potrei farci: un gigantesco mosaico, lasciando che sia il caso a disporre
gli scatti, e vedere qual è il colore predominante della mia vita fotografata
di questi ultimi cinque anni. Così, un po’ da lontano, guardare 21.328 fotografie,
di dimensioni troppo ridotte perchè si possa distinguerle; e trarne una
tonalità, forse un disegno astratto.
Oppure,
potrei farle scorrere velocemente una dopo l’altra, una al secondo.
21.328
secondi sono 355,466666666666667 ore di proiezione.
Quasi
356 ore di film ininterrotto. Un film che dura più di un anno.
Dimezzando
il tempo di comparsa di ogni singolo scatto, siamo sempre nel mondo delle cose
impossibili: un filmato di 178 ore.
Proviamo
ancora.
La
televisione, per dare l’impressione del movimento, spara negli occhi degli
spettatori 25 fotogrammi al secondo (al cinema delle origini ne bastavano 16).
21.328 fotografie diviso 25 fotogrammi al secondo fa 853 secondi (circa).
Servono cioè 853 secondi per proiettare 21.328 fotografie alla velocità di 25
fotogrammi al secondo.
Ancora
troppo: 853 secondi sono 14 ore circa di proiezione.
Nel
1979, sul Time, appariva un articolo a proposito di un certo Hal Becker,
ricercatore di elettronica medica della Louisiana, inventore di una scatola
nera in grado di diffondere messaggi subliminali ad alta velocità e a basso
volume, per circa 9.000 volte l’ora.
Una
catena di supermercati dell’East Coast, installato questo apparecchio e
diffondendo il messaggio subliminale insieme alla musica ambientale, ottenne
una riduzione del taccheggio del 37%, durante un periodo di prova di 9 mesi.
Il
messaggio subliminale era: “Non ruberò. Mi comporterò correttamente.”
Nello
stesso articolo, il professor Becker affermava di aver rifiutato le richieste
di assunzione da parte di diversi politici e pubblicitari.
Prima
che le nostre menti inizino a macinare considerazioni a proposito di questa
scoperta e del suo uso, torniamo a noi. Ho 21.328 fotografie. Non so quale sia
la velocità necessaria per proiettarle affinchè non vengano percepite
razionalmente dall’osservatore, ma ne ho abbastanza per farlo per molte ore di
seguito.
Non
intendo nascondere un singolo messaggio subliminale: ipotizzo un filmato molto
veloce, che impressioni la retina degli spettatori e venga percepito dal
cervello; che non venga interpretato razionalmente ed in modo narrativo, ma che
comunque sia in qualche modo assimilato a livello inconscio. Ecco: lo
spettatore avrebbe, forse e solo in parte, assimilato l’aspetto emozionale,
molto generico, dei miei 5 anni di scatti fotografici. Una parte della mia
storia sarebbe ora sua.
Non
funzionerà, per molti motivi.
Perchè
la stessa immagine può suscitare emozioni differenti in ciascuno spettatore.
Perchè
non si tratta di un messaggio subliminale preciso, ma ottico e
reinterpretabile.
Perchè
ogni spettatore coglierebbe come più affini al suo modo di sentire, a livello
incoscio, certe immagini più di altre, che si fisserebbero più facilmente nella memoria.
Rallentiamo
il nastro.
Le
immagini smettono di sfarfallare, tornano ad essere distinguibili, una dopo
l’altra, fino ad un fermo immagine, su uno scatto qualsiasi. Sembra che debba
scomparire anche quello, per lasciare posto al successivo, e invece no.
Sta
fermo lì.
Per
un po’ lo spettatore si chiede se il filmato sia terminato; se si sia bloccato
per qualche motivo tecnico. Distrazione, domande. Poi tornerebbe a focalizzare
l’attenzione sullo scatto. Perchè proprio quello, se non è un errore. Un paesaggio,
un ritratto, chi lo sa.
La
foto resta lì sullo schermo.
Forse
lo spettatore inizierà a domandarsi se c’è qualcosa di particolare, in quella
fotografia, che non sta cogliendo. La guarda meglio.
Definizione
di immagine: metodica rappresentazione secondo coordinate spaziali indipendenti
di un oggetto oppure di una scena, contenente informazioni descrittive riferite
alla scena oppure all’oggetto rappresentato, e dunque distribuzione
bidimensionale o tridimensionale di un’entità fisica. Il linguaggio delle
immagini è intrisecamente indeterminato, evocativo, dotato di segni che
assumono valore simbolico in relazione al significato attribuito a ciò che si
osserva o al valore pragmatico degli scopi della comunicazione. La formazione
di un’immagine avviene attraverso la combinazione di una sorgente di energia e
dalla riflessione dell’energia stessa emessa dalla sorgente da parte di oggetti
di una scena; infine, di un sensore sensibile all’energia prodotta dalla
sorgente che raccolga l’energia irradiata dalla scena.
Il
sole, un albero, il mio occhio che raccoglie l’energia riflessa dall’albero.
Adesso,
un passaggio meno facile.
Siamo
nel campo delle immagini digitali.
Affinchè
le immagini siano elaborate da un computer, occorre trasformarle in una
rappresentazione numerica/digitale. Però in natura la distribuzione di energia
elettromagnetica è continua, mentre nella digitalizzazione il campo delle
possibilità di numeri da impiegarsi per descrivere l’immagine è finito. Ecco
che entra in scena l’algoritmo, che da un lato deve mantenere la
riconoscibilità dell’immagine, dall’altro andare incontro alla limitatezza
strutturale del supporto impiegato.
Lo
spettatore sta guardando un algoritmo.
Fermo
lì, fisso.
Certo,
riconosce il paesaggio, il volto, le sfumature, come se fosse reale,
praticamente identico all’originale se avesse usato i suoi stessi occhi. Ma non
esattamente.
Quando
ero bambino, bastavano 16 colori per far sì che il protagonista del videogioco
con il quale stavo giocando popolasse di situazioni credibili ed emozionanti la
mia mente, e producesse nel mio corpo accelerazione del battito cardiaco,
sudorazione alle mani, produzione spontanea di chissà quali molecole chimiche.
Certo, c’era il coinvolgimento narrativo della storia, ma sempre di 16 colori
stiamo parlando. Per non parlare degli spigoli degli oggetti, delle sagome
quadrettose.
Mi
chiedo quale sia l’algoritmo, se mai ce n’è uno, di elaborazione delle immagini
da parte del mio cervello.
Lo
spettatore guarda la mia foto, e nel frattempo guarda il suo modo di vedere la
realtà, guarda l’algoritmo, che la natura gli ha scritto nel codice genetico,
che gli consente di ordinare tutta quell’energia che gli pervade le orbite
oculari.
Guardo
lo schermo sul quale sto scrivendo. Non so esattamente come funzioni.
Come
mio nonno, che non sapeva il funzionamento del videoregistratore, ma lo usava.
Un
po’ meno le funzioni di programmazione per farlo iniziare a registrare al
momento giusto, senza che lui fosse presente. Così, quando guardava tempo dopo
la videocassetta, il film (che aveva deciso di videoregistrare perchè non
poteva vederlo in diretta) era già iniziato, oppure c’era un pezzo di film
precedente, e poi un sacco di pubblicità.
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