Esperimenti di scrittura, 4 di 14
Al karaoke
ovvero “Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”
ovvero Che tu sia generoso oppure sia sprovveduto,
abbi comunque il tuo stile.
Uno scrittore che voglia provare a scrivere in un
locale in cui si pratica il karaoke, potrà anche non sapere che l’invenzione
del karaoke è di incerta attribuzione, secondi alcuni diretta conseguenza dei
programmi televisivi statunitensi degli anni sessanta, secondo altri degli
spettacoli giapponesi durante i quali il pubblico veniva coinvolto attivamente.
Il medesimo scrittore può anche non sapere che l’inventore del primo
apparecchio karaoke fu Daisuke Inoue, musicista giapponese della Kobe degli
anni settanta. Ma lo scrittore in questione è sicuramente un temerario, perchè
scrivere durante una sessione di karaoke equivale a praticare uno sport estremo.
E, per dirla tutta, come uno sport estremo può anche: offrire sensazioni inarrivabili
in altri contesti; e suscitare negli altri scrittori, che non hanno provato, una vasta gamma di reazioni: scherno,
stupore, ammirazione...
Il karaoke è messo in pratica in locali spesso troppo
angusti per la portata del sistema di amplificazione: questo si traduce in un frastuono
assordante che – a prescindere dalla qualità dell’esibizione di chi si cimenta
nel cantare canzoni altrui – già impedisce il dialogo con il proprio compagno
di tavolo, figuriamoci il dialogo introspettivo che ogni scrittore porta avanti
con sè stesso quando scrive una pagina di un suo romanzo. Badi lo scrittore
estremo a scegliere un tavolo almeno illuminato: altrimenti scrivere sarà
ulteriormente tormentato da luci, nel peggiore dei casi, stroboscopiche e/o
laser.
Il karaoke ha qualcosa della roulette russa: gli
avventori del locale scelgono a turno da un quaderno le canzoni che andranno a
cantare, e lo scrittore può esser certo di assistere ad un revival di tutti i
tormentoni degli ultimi dieci anni, ma cantati mediamente molto peggio; se poi
l’età del pubblico è elevata, si può tornare indietro anche di venti o trenta
anni sull’offerta musicale del nostro paese – oppure della scena
internazionale, per i cantanti amatoriali
più esperti. Ora che ci penso,
durante il mio esperimento di scrittura
estrema in karaoke non ho sentito canzoni in spagnolo, francese, cinese
oppure russo, dunque quella che definisco scena
internazionale comprende solo le canzoni in lingua inglese, scambiare internazionale per inglese è una forma mentis che la dice lunga, devo fare più
attenzione.
Continua ad assonarmi in testa karaoke con harakiri, e
devo proprio scriverlo: ad uno scrittore basta la sua penna per farlo?
Se lo scrittore che scrive durante un karaoke non si
è totalmente isolato dalla realtà circostante (con qualche pratica zen, con un
autocontrollo degno di un samurai, oppure perchè affetto da qualcosa che ha a
che fare con il largo spettro di fenomeni legati all’autismo) noterà un dato
interessante, canzone dopo canzone: molto raramente si innescano focolai di
scherno, da parte del pubblico, per chi si esibisce.
A prescindere dalla qualità dell’esibizione canora
dei partecipanti.
Perchè?
Lo scrittore può tentare di dare alcune risposte. La
prima: perchè prima o poi tutti i presenti cantano qualcosa, e dunque si è
collettivamente consapevoli che chi giudica verrà prima o poi giudicato, e
viceversa. La seconda: perchè non è un ambiente competitivo: a ben guardare, la
gente che frequenta i karaoke vuole divertirsi, non gareggiare. Non è raro che
sulle note di canzoni molto famose tutto il pubblico canti insieme a chi ha il
microfono in mano, con un’impennata improvvisa del livello di difficoltà di
scrittura per lo scrittore che sta scrivendo al karaoke. La terza: perchè, per
selezione naturale, coloro ai quali non piace il karaoke (e dunque sarebbero
molto critici nei confronti della pratica) semplicemente non frequentano il
karaoke.
Questa sorta di regola non scritta, per la quale il
karaoke è zona franca da eccessive esternazioni di non-gradimento nei confronti
dell’esibizione di ciascuno, induce lo scrittore in questione ad ulteriori
considerazioni. C’è possibilità che – nonostante l’assenza di spirito critico –
nel totale di esibizioni di una sessione di karaoke si produca qualità? E’ solo
una questione statistica, che ci sia tra il pubblico qualcuno davvero capace di
cantare bene? Oppure per un aspirante
(ed espirante) cantante la somma delle cattive esibizioni totali può mostrargli
gli errori da evitare per migliorare la propria abilità canora? Queste, e altre
considerazioni sociali ed estetiche, possono distrarre lo scrittore dallo
scrivere il suo romanzo, se ha scelto di tentare la pratica estrema di scrivere
al karaoke.
Oppure, suggerirgli un parallelismo: si può
sostituire “esibizione canora al karaoke”
con “stampa di un romanzo autoprodotto”.
A latere dunque del disturbo arrecato dal frastuono
musicale, dalle cattive esecuzioni, dalle considerazioni sociali (e lo stesso è
per la scrittura: dal frastuono della comunicazione, dalle pubblicazioni oscene
pur in testa alle classifiche, dai social e dal contesto sociale), si aggiunga
la tentazione del bere e del mangiare; a meno che non abbia già provveduto in
anticipo, e dunque sia a stomaco pieno e non sia tentato dall’offerta del meù
del locale dove si pratica il karaoke: cibi fritti di difficile digestione e
alcol nelle sue forme più disparate, ulteriori inciampi sulla via della stesura
del romanzo da parte del suo scrittore.
Inoltre, c’è un ulteriore accadimento che, qualora
dovesse accadere, potrebbe avere
conseguenze notevoli per lo scrittore e la sua scrittura. A me non è capitato,
dunque posso solo immaginare ed invitare ad immaginare. E se anche lo scrittore cedesse alla
tentazione catartica di cimentarsi in un’esibizione canora? Il suo stile di
scrittura cambierebbe, e come? E la considerazione che spesso la gente ha dello
scrittore – solitario, forse al di sopra delle umane questioni – subirebbe un
repentino mutamento, a vederlo cantare come
tutti? Scrittori che scrivete e cantate al karaoke, fate outing e
raccontate le vostre esperienze.
Nel 1999 il Time dedicò un articolo sulle personalità
asiatiche più influenti della storia contemporanea, e tra queste inserì anche
Daisuke Inoue, l’inventore del karaoke. Si potrebbe credere che, a fronte di un
fenomeno internazionale di tale portata, Inoue abbia fatto un sacco di soldi
con la sua pensata.
E invece no.
“Quando faccio qualcosa, divento subito il peggiore.
Sono bravo a suggerire, a spronare gli altri a dare il massimo, così va a
finire che i miei studenti mi superano in bravura in poco tempo. Nel caso della
Karaoke Machine... altri hanno seguito meglio di me il progetto, e hanno fatto
soldi.” Così ha dichiarato Daisuke Inoue al Time, durante l’intervista.
Forse non poteva che andare così: mentre Daisuke
cantava al primo karaoke della storia, per il semplice piacere di farlo, e con
il desiderio di coinvolgere il pubblico in questo gioco divertente e non
competitivo, proprio qualcuno di quel pubblico si faceva due conti sul
potenziale economico di una tale trovata.
Si sentiva superiore a tutti gli altri? Ha tradito lo
spirito iniziale del karaoke? E’ inevitabile che vada così, che qualcuno
sfrutti un’idea a discapito di tutti gli altri, oppure al contrario è proprio
un interesse personale che poi l’ha portata a diffondersi in tutto il mondo?
Tutti i soldi guadagnati con l’idea del karaoke ripagano l’essersi perso un
momento di autentica spensieratezza in un contesto umano solidale?
A tutte queste domande uno scrittore potrebbe provare
a dare risposte con una storia che, so per certo, sarebbe molto interessante.
Daisuke Inoue: mette d’accordo
coloro che lo giudicano generoso e quelli
che lo giudicano sprovveduto
nel dire che, comunque, ha uno stile inconfondibile, che piaccia o meno.
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