Esperimenti di scrittura, 2 di 14
Al bar
ovvero Chi volete che
liberi? E la folla gridò: “Bar Abba! Bar Abba!”
sulle note del noto gruppo
musicale svedese.
Scrivere (al) “bar” è molto generico. Esistono moltissimi
tipi di “bar”, uno per ogni popolo, uno per ogni città, per ogni quartiere, per
ogni barista; verrebbe da dire che ci sono “infiniti bar” (alle volte uno
accanto all’altro, alla faccia di ogni teoria macro/micro economica) che ogni
giorno compaiono e scompaiono; niente di più vicino ai cicli cosmici di
creazione e distruzione. E (quasi) tutti questi bar sono già stati ampiamente
de-scritti da moltissimi de-scrittori, forse ben più di uno per ogni bar
(possono coesistere due scrittori nello stesso bar, contemporaneamente? Si
sfideranno all’arma bianca? Collaboreranno? Sono curioso di sapere se la
letteratura scientifica annovera studi specifici su casi come questi).
Tuttavia, suppongo esistano bar senza uno scrittore “di casa”, così come
scrittori senza un “bar” dove scrivere, e questo rende sicuramente più
avventurosa l’esistenza, considerando quanti incontri fortunati possano ancora
avvenire tra scrittori e bar. Forse lo stesso bar è diverso per ciascuno di
noi, forse ciascuno di noi crea il bar che frequenta, sento l’eco del principio
di indeterminazione di Heisenberg, è lo sguardo che crea la realtà, la teoria
dei quanti, magari dei guanti se il barista li indossa, ma sarebbe allora un
bar di lusso, per scrittori di lusso, chi può permettersi oggi il lusso di fare
lo scrittore.
D’altro canto, credo anche che al barista –
generalizziamo, che sia il gestore oppure il dipendente – faccia piacere avere
uno scrittore nel proprio bar. Entrereste in un bar deserto? Dunque qualcuno
impegnato in un’attività intellettuale – fantastico, intellettuale! – certo non
può che dare lustro al locale. Dobbiamo però considerare una serie di casi, di
interazioni che danno risultati finali molto diversi tra di loro.
Scrittore introverso con barista introverso =
ciascuno si fa i fatti suoi, e tutto finisce lì.
Scrittore introverso con barista estroverso =
il barista “disturba” lo scrittore. Cambierà bar? Lo
inserirà come vittima nel proprio thriller?
Scrittore estroverso con barista introverso =
il barista gli farà capire che deve scrivere e non
chiacchierare?
Scrittore estroverso con barista estroverso =
probabilmente parleranno spesso del più e del meno,
con conseguenze funeste sui tempi di completamento del romanzo, o del racconto,
o della poesia, o di quello che è. Che non è un male se lo scrittore è
mediocre, ma chi può dirlo prima di aver letto.
Quando ero ragazzo, ricordo di aver scelto un bar
piuttosto lontano da casa, per mettermi a scrivere uno dei miei romanzi. Era la
storia di un toro che scappava da un mattatoio, in principio nessuno se ne
accorgeva, il toro scorrazzava libero per la città e nei vari capitoli
raccontavo come veniva avvistato casualmente dai passanti, e le loro reazioni
nel trovarselo di fronte. Il romanzo finiva male, una pattuglia avvistava il
toro con le corna incastrate in un reticolato vicino all’autostrada, e decideva
di abbatterlo per evitare gravi incidenti, prima che riuscisse a liberarsi e a
correre in mezzo alle auto. Il carabiniere che apriva il fuoco si rendeva conto
di quanto fosse difficile ucciderlo, non gli bastava un proiettile solo. Era
una sorta di tragedia collettiva della solitudine, compresa quella del toro. Il
bar dove avevo scelto di scrivere questa storia si trovava (si trova, c’è
ancora?) di fronte all’ospedale Sant’Anna, quello “dove nascono i bambini”, ed
era frequentato da futuri padri preoccupati, gestanti che prendevano il caffè
prima di entrare in ospedale, parenti con regali e fiocchi azzurri e rosa,
qualche studentessa di ostetricia. Ai tempi si poteva ancora fumare nei locali
pubblici. Che cosa prendevo? Succo di frutta, di solito. Forse era per quello
che le studentesse di ostetricia non mi filavano nemmeno per sbaglio.
Oggi, riprovando l’esperienza di scrivere in un bar
per descrivere che cosa “voglia dire”, mi rendo conto più precisamente di tutta
una serie di cose. In primo luogo, i discorsi (o no) della gente: quelli che
entrano e non dicono una parola, quelli che invece capisci subito che non
vedono l’ora di attaccare bottone. I discorsi da bar, su calcio, tempo,
politica. Tu scrittore scrivi, ma non puoi fare a me di ascoltare – anche “solo”
inconsciamente – quello che stanno dicendo. Credo che il bar (la locanda, il
pub) sia stato il primo social network della storia: ciascuno entra, dice la
sua, si atteggia come vorrebbe che gli altri lo percepiscano, esce. Con il suo
scrittore seduto al tavolino, il bar per osmosi filtra la realtà “fuori”, in
una sorta di distillato di luoghi comuni che potrebbero benissimo essere verità
assolute – e in fondo lo sono – di umanità varia che si ferma oppure no per un
istante, per un caffè quando deve restare sveglio, per un bicchiere di vino
quando vuole far dormire la mente. Attraverso le vetrine, lo scrittore può
guardare per strada la gente che passa: meglio di molti canali televisivi, la
vita è lì, ad un passo, eppure lui è comodamente seduto al suo tavolino. Non
può cambiare canale, e questo non può che fargli bene, in questo caso. Come se
fosse un’estensione di casa sua, lo scrittore si trova in un luogo che gli
permette di scrivere, ma anche di entrare in contatto con gli altri, senza per
questo dover scendere troppo a patti con la sua intimità, la sua privacy. Vedo
avventori giocare di scaltrezza per chi si accaparra il quotidiano, sempre solo
uno, così che per sapere che cosa succede nel mondo è necessario aspettare il
proprio turno, oppure farselo raccontare. Il bar che ho scelto per
l’esperimento ha tre videopoker. Credo che questo faccia immediatamente
declinare la scrittura verso considerazioni sociali e/o fataliste.
Fortunatamente, il bar è anche e ancora il luogo dove si dà il primo
appuntamento: qui saranno nati amori, oppure ne sarà stata certificata la morte
(cerebrale?), magari qualcuno era già pronto per il conseguente espianto,
a-mors tua vita mea. Scrivere al bar con un computer sembra voler dire al mondo
“sto lavorando a qualcosa di importante” oppure “è lavoro, è studio”; scrivere
a mano significa invece “ehi, è arte”, agli occhi di molti forse suona come “mi
dò un tono”. Eppure penso a quanti manifesti letterari sono nati nei bar,
quanti rivoluzionari hanno scritto in una locanda il proprio credo, quanti
criminali hanno pianificato le loro rapine, quanti co-spiratori hanno
co-spirato. Ecco che arriva la considerazione sociale sui videopoker: c’erano
anche i giochi d’azzardo, ma a vincere sempre non era lo Stato.
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