Ovvero:
che cosa c’entra tutto questo con il ready-made.
E,
indirettamente ma fatalmente, con l’assemblage.
Ready-made si traduce in: già fatto, confezionato.
Il ready-made è dunque un manufatto di uso
quotidiano, preso paro paro
dall’artista che, collocandolo in un contesto diverso (vedi museo o galleria
d’arte), lo eleva al rango di opera d’arte e, casomai, simbolo di qualcosa.
Se avete letto il precedente capitolo dedicato
all’assemblage vi verrà facile accettare
l’idea che ogni ready-made è l’assemblage
di Tizio, che lo aveva costruito per certi scopi, assemblage al quale Caio invece attribuisce scopi diversi. Se
volete leggere o ripassare l’articolo potete cliccare qui, altrimenti vi tocca
fidarvi.
Mi piace l’idea che il ready-made sia in
qualche modo correlato non solo al cambio di significato, ma anche al trasporto
da un luogo ad un altro. Cioè, perchè si possa parlare di ready made servono:
-
un oggetto (assemblage) con
scopi industriali / commerciali / di uso comune
-
un artista, che sceglie accuratamente l’oggetto (assemblage)
-
un luogo al quale venga attribuito il potere di operare la
necessaria trasformazione
-
un pubblico, che stia al gioco
Sono le condizioni sine (qui quo) qua non.
-
Senza un oggetto, non c’è niente da vedere
-
Senza un artista che operi la scelta, l’oggetto non arriverebbe alla
galleria
-
Senza un luogo con il giusto potere l’oggetto non ha destinazione al
suo viaggio
-
Senza un pubblico che stia al gioco, l’oggetto è tale e quale a
prima
Il potere che il luogo ha, quello di completare
la trasformazione dell’oggetto, può essere dolce o violento. Nel caso di un
potere dolce: il pubblico accetta culturalmente, comprende pienamente il senso
dell’operazione, conosce i retroscena, a grandi linee magari la storia
dell’arte, insomma gioca sapendo di giocare. Nel caso di un potere violento: il
pubblico finge di giocare, cercando di non far capire che sta figendo,
altrimenti la critica dell’arte lo relegherà allo status del
“te-lo-spiego-io-anche-se-non-puoi-capire” perchè non hai la giusta
sensibilità, oppure la sufficiente cultura. Questa, in qualche modo, è
violenza.
Avrò avuto dieci anni. In vacanza con i miei genitori
in Francia. Ci fermiamo a Vence. Tra le altre cose, andiamo a vedere la
Cappella del Rosario di Matisse. Ricordo mio padre e mia madre, uscendo, non le
parole esatte, ma il senso, rafforzato dalla loro espressione: “Mah, è un
artista. Bello, eh? Particolare.”
Quale guerra mondiale si stava svolgendo davanti ai miei occhi, quali gli
eserciti sui due fronti? Da un lato il mondo precluso a chi non ha la cultura: dall’altro, quello di
chi ha lavorato tutta la vita per sè e per la società senza che la società gli
ricambiasse il favore, mettendo a disposizione, in modo comprensibile, le sue
meraviglie più alte. Quella guerra mondiale mi toccava da vicino: i miei
genitori erano in trincea (ma non lo sapevano). Sarebbe toccata anche a me.
Stava già toccando anche me. Una
guerra che molti non ritenevano così importante vincere, “tanto si sta bene lo
stesso”. Invece non era, non è, affatto vero.
Mi chiedo quale potrebbe essere il ready-made
più rappresentativo dei nostri giorni.
Ho pensato ad un “like”, quello del Famoso social Betwork. E’ ready-made se lo estrapoliamo dal suo contesto e dai
suoi significati più o meno compresi, e lo lasciamo magari lì da solo. Un
“like” a se stesso. I like the like. Considerando che like significa anche a
somiglianza di, è un cerchio perfetto.
Un mobile Ikea è un ready-made-self-assemblage?
E gli autoscatti, grottescamente
contestualizzati nelle toilettes, che spiccano su tanti profili del Famoso social Betwork, chiamati selfies,
sono ready-made? E’ ready-made il concetto che puntella le facciate di queste
scenografie da villaggio di film western, dietro alle quali non c’è proprio
nulla? Ma fa scena. Anche i proiettili dei cowboys sono a salve. Conflitti dai
quali non esce vivo o morto nessuno, ma sono morti entrambi perchè fingono.
Perchè le ragazze mettono le labbra “a papera” quando si scattano le selfies?
Nel nostro secolo del pronto-all’uso, il
ready-made ha anche un’accezione commerciale.
Penso al ready-to-wear, pret-a-porter.
Penso al ready-meal, al cibo spazzatura.
Penso alle teorie catastrofiste, secondo le
quali, forse, si salveranno solo i contadini.
Essendo capaci di coltivare la terra, dunque
procacciarsi cibo.
Gli altri non troveranno più cibo-in-scatola da
porter consumare nel giro di poco.
Penso alle teorie alternative al consumismo: il
riciclo, il riuso.
Penso alla realtà come ready-made collettivo.
Ma di questo scriverò prossimamente, parlando
di SF, il Social del Futuro.
Dunque: teniamo a mente tutto questo, e andiamo
al sodo.
A proposito dell'ultimo film di Paolo Sorrentino.
A me piace molto il titolo, perché pone
l'italiano medio di fronte ad un problema.
Forse non solo l’italiano medio: bensì anche
l’italiano pollice, indice, anulare e mignolo.
Chiamarlo “problema” è un problema, perchè per
molti non è affatto un problema.
E invece.
Se state pensando che si tratti di una
questione di filosofia estetica, siete in errore.
Il mio è un punto di vista strettamente
grammaticale.
Infatti, il titolo di questo film vincitore del
Golden Globe inizia con un articolo determinativo. Nella nostro caso: inizia
con l’articolo determinativo "LA".
Facciamo un esempio.
Scriviamo: "Che cosa penso della "La
grande bellezza". E’ sbagliato.
Riproviamo: "Che cosa penso della
"Grande bellezza". Manca l'articolo al titolo.
Abbiamo allora due possibilità:
“Che cosa penso de “La grande bellezza”.
Oppure “Che cosa penso della “Grande bellezza”.
Qual’è la forma più corretta? Come si risolve
questo mistero?
Un passo indietro.
Esistono gli articoli determinativi IL / LO /
LA / I / GLI / LE.
Ed esistono le preposizioni semplici DI / A /
DA / IN / CON / SU / PER / TRA / FRA
Le preposizioni semplici contraggono l’articolo
determinativo per formare una sola parola.
Queste nuove parole si chiamano: preposizioni
articolate.
Esempio: DI + IL = DEL oppure DI + LA = DELLA
“Che cosa penso di + la grande bellezza” = “Che
cosa penso della grande bellezza.”
E allora la forma “Che cosa penso de “La grande
bellezza” da dove salta fuori?
"La grande bellezza" è citazione di
un nome proprio di opera. L’uso che si possa considerare intatto il nome
proprio di persona, luogo oppure opera deriva dall'imitazione della scrittura
analitica dei testi degli antichi amanuensi, che trascrivevano la poesia o la prosa
usando la forma della preposizione articolata con la consonante scempia seguita
dall’articolo determinativo. Scrivevano DE + LA ma pronunciavano DELLA (all’incirca,
per farla breve).
Da dove prendevano questa convinzione gli
antichi amanuensi che hanno trascritto i capolavori del passato? Dalla Divina
Commedia. Dante scriveva così. E parecchi poeti dopo di lui hanno continuato a
farlo in questo modo.
Però.
Se scrivete “Che cosa penso della Grande Bellezza”
non sbagliate affatto. L’Accademia della Crusca, infatti, consiglia l’uso più
vicino alla pronuncia, anche per non cadere in un vortice che ci obbligherebbe
a scrivere la nostra lingua in un modo diverso da come si pronuncia
colloquialmente, e in forme molto arcaiche. Ad esempio, non dovremmo scrivere
“Berlusconi, dopo il terribile terremoto, si è recato all’Aquila”, bensì
“Berlusconi, dopo il terribile terremoto, si è recato in L’Aquila”. Suona male,
non scorre. A prescindere.
Questo per dire: dietro a molte delle scelte
che compiamo ogni giorno si nascondono storie insospettabili (anche a noi
stessi). Parte del nostro compito, e probabilmente della nostra realizzazione,
è diventare coscienti delle scelte che stiamo facendo. Questo si traduce nel
diventarne pienamente responsabili. Uno dei compiti attribuiti alle arti:
compiere delle scelte (soggetto: l’artista), e far compiere delle scelte (a
chi? al pubblico). Oppure, almeno: far comprendere al pubblico il perchè delle
sue scelte (delle scelte del pubblico).
L’estetica non dovrebbe essere soltanto un
ornamento, nè l’opera essere solo decorativa.
Tantomeno, non dovrebbe essere sbilanciata solo
per essere esteticamente gradevole, e dunque attirare il pubblico, oppure i
favori della critica. Altrimenti è un ready-made costruito ad arte da qualcuno
per essere esportato e consumato da chi vuole una bella immagine rassicurante e
preconfezionata.
Mi viene in mente una citazione latina, che
credo di aver sentito almeno dieci anni fa. In breve e parafrasando, parla del
medico che cosparge di miele il bordo del bicchiere che contiene una medicina
amara, così che il malato, ingannato, mandi giù tutto.
Il problema è che a cospargere troppo di miele
si inzacchera anche la medicina, che non funziona più (per non parlare dei
bicchieri pieno solo di miele: fantastici, ma chi vivrebbe solo di questo?). La
stessa cosa per le arti: raramente si trova il giusto equilibrio di estetica
(piacevolezza) e capacità di condurre fuori dalla propria area di comfort il
pubblico. Dal momento che molto pubblico ha una forte dipendenza da sostanze
divertogene, risulta più facile averlo tra i propri acquirenti con molto miele
e poca medicina.
Poi ci sono i complottisti che affermano che
non si vuole dare al pubblico nessuna medicina, per tenerlo così com’è, e
magari non sbagliano del tutto.
Tony Servillo, al telefono con la giornalista
di Rai News, convinto che non si senta più quello che sta dicendo, perchè la
conversazione telefonica è disturbata dall’attraversamento in automobile di una
galleria: “Ma [bestemmia]... ‘sta cretina di Rai News”. Lo stesso, poco prima,
alla giornalista che gli chiedeva un’opinione in merito alle critiche mosse al
film: “Credo che la maggior parte degli italiani voglia condividere un
entusiasmo...”
Quando ho visto alcune scene della Grande
Bellezza, ho pensato: è un ready-made!
C’era la scelta degli oggetti da parte
dell’artista-regista.
E non solo degli oggetti: anche dei ruoli,
delle situazioni.
C’era il luogo adibito alla trasformazione in
simbolo: il contesto del film, lo schermo.
Alcune inquadrature, l’uso della luce.
Quando un artista si confronta con la tecnica
del ready-made sta cercando un senso nell’oggetto che estrapola dal contesto.
L’oggetto è un assemblage prodotto dalla società che l’artista stesso abita,
nella quale si muove. Dunque, cerca un perchè a quell’oggetto. Alla società che
l’ha prodotto, così, in quel modo. E probabilmente cerca anche un’indulgenza
plenaria per se stesso.
Indulgenza plenaria alle scelte che ha compiuto
nella vita. Quelle che lo hanno condotto ad un destino piuttosto che ad un
altro. E indaga a che punto finisca la responsabilità per sè e per gli altri
(vittime collaterali), e da che punto in poi sia “destino”. Qual’è il potere
del luogo che trasforma l’oggetto in simbolo? Chi dà a questo luogo il suo
potere? Qual’è il senso dell’oggetto? Qual’è il senso della società che l’ha
prodotto? Qual’è il mio senso all’interno di questa società? C’era qualcosa che
poteva essere tentato, e invece la mancanza di volontà oppure il destino l’ha
impedito?
“C'erano obiezioni che erano state dimenticate?
Ce n'erano di certo. La logica è, sì, incrollabile, ma non resiste a un uomo
che vuole vivere. Dov'era il giudice che lui non aveva mai visto? Dov'era
l'alto tribunale al quale non era mai giunto? Levò le mani e allargò le
dita.
Ma sulla gola di K. si posarono le mani di uno dei signori, mentre
l'altro gli spingeva il coltello in fondo al cuore e ve lo rigirava due volte.
Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, davanti al suo viso,
appoggiati guancia a guancia, i signori scrutavano il momento risolutivo. «Come
un cane!», disse, fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere.” [da “Il
processo” di Franz Kafka]
A proposito dell'ultimo film di Paolo Sorrentino.
A me piace molto il titolo, perché pone
l'italiano medio di fronte ad un problema.
Chiamarlo “problema” è un problema, perchè per
molti non è affatto un problema.
E invece è un problema, e precisamente: quanto decido io, e quanto
decide il destino.
Jep Gambardella: “A questa domanda,
da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: "La
fessa". Io, invece, rispondevo: "L'odore delle case dei vecchi".
La domanda era: "Che cosa ti piace di più veramente nella vita?". Ero
destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero
destinato a diventare Jep Gambardella.”
Forse quello che chiamiamo destino è in
parte una resa; una resa di fronte alla mole immensa ed inestricabile di (con)cause
che ci spingono a questa piuttosto che a quella scelta. Tutto il resto rischia
di diventare una bella favola: ciascuno si costruisce la sua, per ottenere il
perdono da se stesso. Anche con un ready-made sontuoso (che rischia di
diventare pre-sontuoso). Basta
crederci, e trovare buoni complici.
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