Ho visto uno spettacolo bellissimo
ovvero La Compagnia del Dopodomani, Hilbert, Godel e il Magic Worm.
Ho assistito ad uno
spettacolo teatrale sorprendentemente bello ed interessante.
Ho deciso di raccontarlo, in
parte.
Non siete a rischio spoiler, tranquilli.
Si dà il caso (a dire il
vero: la scelta) che questo spettacolo non verrà più rappresentato.
Ma andiamo con ordine.
Non credo che la descrizione
che ne farò possa aggiungere qualcosa a questo spettacolo.
Tantomeno sarà una
recensione, la mia; non avendo (e forse nemmeno desiderando) le medaglie
necessarie per fregiarmi del titolo di critico teatrale. Bensì per una ragione
molto più specifica, una necessità, che spero di riuscire a chiarire nel
susseguirsi di queste mie righe.
E’ iniziato tutto con una
mail.
“Ah! la tirannia
dell’e-mail” scriveva John Freeman, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente.
Ne ricevo a decine, ogni giorno: alcune sono sicuramente spam; altre potrebbero
anche non esserlo, ma preferisco non perderci troppo tempo. Ne salvo otto
oppure nove: amici, segnalazioni interessanti, situazioni da approfondire.
Certo, dovrei leggerle tutte, perlomeno allargare le maglie della selezione;
non cestinare troppo e troppo in fretta; ma manca il tempo, i progetti in ballo
sono tanti (e imparare a ballare con gli altri per niente facile), devo:
ottimizzare, parola mutuata da un mondo di teorie sulle risorse scarse e sui
massimi profitti, che ripugna me per primo, confesso di non essermene liberato
del tutto, se mai sia possibile. Però, vi assicuro, ci sto provando.
La mail in questione ha come
oggetto: “L’uomo di fiducia.
Spettacolo teatrale” e basta.
Il mittente:
info@compagniadeldopodomani.org
Ricevo spesso, per il lavoro
che svolgo, mail che mi segnalano spettacoli. Alle volte le leggo, altre volte
no. Vorrei leggerle tutte, rispondere a tutti, andare a vedere tutti gli
spettacoli. Non posso. Ma dal momento che mi rendo conto che questo mio non posso è un errore, se non da un
punto di vista economico sicuramente
da un punto di vista esistenziale,
allora consento che l’intuito riporti, almeno un po’, la bilancia cosmica verso
il suo punto di equilibrio; e leggo ugualmente, anche se forse non ne vale la
pena, ammettendo che potrei aver giudicato troppo presto oppure troppo male; e
cerco di rispondere, e di partecipare, anche se non è la mossa migliore da fare
per gestire in modo efficace il mio lavoro. Mai affondare la propria lama di
presunzione nel cuore dello stupore.
Così apro la mail e, animato
dalle migliori intenzioni, leggo.
“Spettacolo per un unico
spettatore”. Già visto, mi dico. Visto e stravisto e strarivisto.
Riga seguente: “Unica data
assoluta: 22 gennaio 2014”. Questo fa suonare un certo campanello di interesse
nella mia mente. Non ancora razionalmente; ma qualcosa non mi torna. Infine:
“Per candidarsi come spettatore, rispondere a questa mail con nome e cognome.”
Nient’altro.
Dal punto di vista del
marketing della comunicazione, mi sembra efficace. Anche se un po’ scontato:
nel marasma (al rialzo del chiasso) delle compagnie che devono stupire sempre
di più con effetti speciali per farsi
seguire, anteponendo magari critiche favorevoli e recensioni, locandine
debitamente studiate per trattenere il (destinatario della comunicazione)
spettatore oltre i tre consueti secondi, giocare sul minimalismo è una strada
già percorsa. Strapercorsa e straripercorsa.
Oltre che essere stata già
percorsa, è in un certo senso uno dei due limiti contro il quale scalcia, come
un cavallo che vuole uscire dalla stalla per correre libero e felice, il
desiderio comunicativo di tanti artisti, che vorrebbero far stare (comprendere)
in un formato A4 tutto quello che sperano, per cui lavorano, e che vorrebbero
offrire al proprio (oppure non ancora proprio) pubblico. C’è chi sventaglia con
il mitra (vedi Arnold Alois
Schwarzenegger, che poi è stato anche governatore della California) chi
prende lentamente la mira con l’arco per un unico precisissimo colpo (Lo zen e l’arte del tiro con l’arco, vedi
Eugen Herrigel, che ebbe una cattedra in filosofia all’università di Erlangen),
l’obbiettivo è sempre lo stesso: centrare il bersaglio. Sono le due “pareti” dentro
le quali si muove questo tipo di comunicazione, il terreno sul quale si svolge
la partita. Troppo oppure troppo poco. Il problema (uno dei problemi) è che, ma
forse mi sbaglio e devo ancora pensarci e forse non troverò mai risposta ben
formata, la comunicazione (come oggi è comunemente intesa) sembra strutturalmente portata a far passare
messaggi di un certo tipo a discapito di altri.
Ma torniamo alla mail.
C’è un aspetto che mi lascia
perplesso. Che sia uno spettacolo per un solo spettatore, va bene, niente di
troppo sconvolgente. Ma se si tratta anche di un’unica data, allora significa
che qualcuno sta recitando per un solo spettatore, in una sola occasione, e mai
più. Ed ecco che immediatamente si fanno strada nella mia mente le questioni
già a lungo affrontate con molte compagnie per le quali, oppure con le quali,
ho avuto occasione di lavorare. Sbigliettamento. Sostenibilità. Finanziatori.
Crowdfunding. “Rischio d’impresa”, come ebbe a dirmi Walter Cassani, tempo fa, in
quel del Sistema Teatro Torino, a fronte di un finanziamento con il quale non
ci si pagava nemmeno l’Enpals, con buona pace della Previdenza Sociale tutta.
E’ chiaro che, anche se non
so quanto costi il biglietto, con un solo ingresso non si ripaga un bel niente
dello spettacolo. Al contempo, mi chiedo quale ente, pubblico oppure privato,
possa aver finanziato uno spettacolo che non ha spettatori se non una persona
sola, ed in una sola occasione. Che cosa, oppure chi, c’è dietro? Che interesse
può avere, a fare un simile investimento? Senza ricadute (personali oppure collettive) che lo giustifichino?
Uno sguardo al calendario:
il 22 sera non ho impegni.
Rispondo alla mail: “Molto
interessante. Sarei felice di essere il vostro pubblico. Mi chiamo Andrea
Roccioletti. Dove posso trovare ulteriori informazioni a proposito della vostra
compagnia? Buon lavoro.” Poi, apro il famigerato Google, digito “Compagnia del
Dopodomani” ed inizio a scorrere pagine e pagine di risultati, consapevole che
l’ideale di classifica che google
propone ai suoi utenti, e con il quale ordina il mondo, non è il modo più corretto
di fare ricerca. Non trovo nulla. Il
trucchetto di prendere il mittente della mail, e cercare
compagniadeldopodomani.org non dà nessun risultato. Safari non trova il server, avverte il browser. Insomma, non
esiste.
Passa qualche giorno, e a
quella mail non penso più. Nel frattempo, tra un lavoro e l’altro, leggo un
testo molto interessante: “Sull’infinito” di David Hilbert. Non ne colgo tutte
le sfumature: probabilmente solo un matematico può apprezzare appieno questa
trascrizione del discorso pronunciato nel 1925 al Congresso della Società
Matematica della Vestfalia in memoria di Karl Weierstrab, il cosiddetto “padre
dell’analisi moderna”. Tuttavia,
c’è un’idea folgorante, ad un certo punto del libro. Così semplice, così
esteticamente perfetta. Quella che rende alla portata di tutti il concetto
dell’esistenza di due diversi tipi di infinito.
Il primo: la numerazione
progressiva. 1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7... e così via, all’infinito.
Il secondo: tutti i numeri
esistenti (ad esempio) tra 1 e 2.
Che sono altrettanto
infiniti: 1,5 | 1,58 | 1,5879 |
1,578753245... e così via, ad libitum.
Ma pur sempre un infinito
che resta compreso tra due numeri, 1 e 2.
Un infinito che si avvicina
sempre di più a 2, quasi lo sfiora... ma non lo raggiunge mai.
Nell’esistenza, concettuale,
di questi due infiniti, uno senza limiti e uno tra due limiti, sentivo a pelle,
quasi emotivamente, una verità immanente, ma sfuggevole.
Insomma, a quella mail
curiosa non penso più.
Finchè un giorno arriva la
risposta.
“Lei è stato scelto per
essere il nostro unico spettatore. Per confermare la sua partecipazione,
risponda a questa mail. Lo spettacolo sarà il 22 gennaio, alle ore 22.00.
L’ingresso è gratuito. A questo link trova la mappa per raggiungere il luogo
della rappresentazione. Non troverà informazioni sulla nostra compagnia in
internet; abbiamo scelto altre modalità di comunicazione per la nostra
compagnia: nello specifico, i nostri spettacoli. Sono loro a parlare di noi.”
Mi frullano un sacco di
domande per la testa.
Sono stato scelto. Con quale criterio? Certo non deve essere troppo difficile trovare
informazioni su di me in Rete. Magari anche il curriculum, ad esempio sul mio sito.
Forse hanno visto le mie precedenti
esperienze lavorative nell’ambito del teatro e dell’arte (sì, certo: troppo
modesto). Ho la sensazione, però, che non sia stata una scelta guidata da una valutazione
tra chi aveva certe qualità piuttosto che altre per assistere allo spettacolo.
Sempre che non sia una bufala, che in realtà siano molti quelli che, come me,
hanno abboccato a questa forma di campagna pubblicitaria. La sala potrebbe
essere piena. Sarebbe una delusione, in fondo. Pubblicità ingannevole.
Indignazione.
Come quando, da bambino,
dopo tante mie insistenze mio padre e mia madre mi comprarono un certo bruco
strano, colorato, che nella pubblicità alla televisione si muoveva da solo, correndo
da una parte e dall’altra. Ricordo come se fosse oggi la confezione sul tavolo.
La aprimmo con cautela. Mia madre mi disse: “Attento che non scappi.” Invece, il
verme era attaccato ad un filo da pesca. Bisognava muoverlo con quello. Una
delusione. Nel corso degli anni ha cambiato spesso packaging, ma il contenuto
era sempre lo stesso. Un gioco di prestigio. Però, ero io che volevo essere stupito, non stupire conoscendo
il trucco.
Controllo il link indicato
nella mail per sapere dove sarà lo spettacolo. Il puntino dell’obbiettivo è
collocato su una cascina (almeno, così pare, a vederla dall’alto) nei pressi di
Calliano, un paese a pochi chilometri da Asti. Penso: almeno non è lontano.
Forse sono stato scelto proprio perchè, dalle mie informazioni reperibili in
Rete, sono di Torino.
“Non troverà informazioni sulla nostra compagnia in
internet; abbiamo scelto altre modalità di comunicazione per la nostra
compagnia: nello specifico, i nostri spettacoli. Sono loro a parlare di noi.” Questa parte è davvero interessante. Nessun nome: nè
degli attori, nè del regista. Forse è un piccolo gruppo che sta sperimentando
nuovi linguaggi. Trovo lodevole che vogliano parlare (e far parlare) solo attraverso i loro spettacoli. Ma non vedo come
possano avere vita facile al giorno d’oggi, dove vendersi bene sembra essere la parola d’ordine; ripulita quel tanto
che basta, e sdoganata con un poco di cinico realismo là dove sembra troppo
commerciale. Quel piccolo peccatuccio che
fanno tutti così, che ci vuoi fare, d’altronde... o ti adegui, oppure.
Rispondo alla loro mail: “Ci
sarò, grazie.” e poi non so che altro scrivere.
La curiosità però è
moltissima. Cerco ancora in Rete: nessuna notizia di spettacoli o gruppi
teatrali che agiscano in quele zone dell’astigiano. Il titolo dello spettacolo,
“L’uomo di fiducia”, è anche quello che ha scelto Melville per il suo ultimo
romanzo (pubblicato anche con il titolo “Il truffatore di fiducia”). Non so se
lo spettacolo sia tratto da questo testo, oppure sia una coincidenza. In ogni
caso: il romanzo è una sorta di satira della società, e tratta argomenti quali
la sincerità, l’identità personale, la morale, la religiosità, il materialismo
economico, l’ironia e il cinismo. Molti critici lo ritengono il precursore di
tutti i più moderni romanzi sul nichilismo, sull’assurdo e
sull’esistenzialismo. Sarei tentato di comprare e leggere il romanzo, ma chi mi
dice che questa fantomatica Compagnia del Dopodomani ed io stiamo parlando
della stessa cosa? No, forse meglio non avere aspettative.
Penso anche che potrebbe
essere un elaborato scherzo. Ho amici in grado di fare cose del genere. E anche
peggio, vedi Vito Ferro e le sue trappole incredibili, come quella del (falso)
avvocato della Scuola Holden, che voleva querelare lui e me per un certo
articolo uscito su un giornale autoprodotto. Ci credetti come il peggiore dei
boccaloni, e fu una serata molto animata. A fare il totale: tanto vale provare,
al massimo ci rideremo su. Essere oggetto di macchinazioni così elaborate si
può considerare un gesto d’affetto, tutto sommato. Spero di avere sempre amici
disposti a perdere parte del loro tempo prezioso per farmi scherzi.
Il 22 salgo in macchina, e
imposto il navigatore che mi guida nei paraggi. Poi devo cercare un po’, perchè
il navigatore si perde su strade sterrate, inoltre il buio e l’assenza di
segnali stradali non mi aiutano di certo. Sono partito con un buon anticipo, e
questo è stato un bene. Trovo il posto: è proprio una cascina. Una fila di
candele, poste ai lati di una strada di campagna oltre un cancello aperto, mi
conduce ad un parcheggio. Ci sono solo io. Sopra al portone di legno a due
battenti, sul lato lungo del casolare, un cartello: “L’uomo di fiducia”. Si,
deve trattarsi di una burla. Forse quel “di fiducia” si riferisce al fatto che
mi sono fidato, cioè: l’ho bevuta. Parcheggio, scendo dalla macchina. Fa
freddo, e la campagna circostante è immersa nel buio e nel silenzio più
assoluti. Spingo il portone. Entro.
C’è una sala spoglia,
piuttosto grande, più larga che lunga, con un pavimento in legno che scricchiola
sotto ai miei passi; ed un’unica sedia al centro. Davanti alla sedia, a pochi
metri, un sipario pesante, rosso. Un’americana, troppo moderna per il contesto
dell’ambiente, sostiene cinque faretti, accesi e puntati sul centro della
stanza. Da una porta alla mia destra entra una ragazza.
Non la conosco, nemmeno di vista:
nessun ricordo a proposito di lei su qualche social in Rete. Non so se sia
anche lei un’attrice o meno. Avrà venticinque anni, vestita con un paio di
jeans e un maglione blu scuro. Ha i capelli corti e ricci. Mi sorride.
“Benvenuto” mi dice “si sieda pure” e indica la sedia. Si rivolge a me con il lei. “Non può usare la macchina
fotografica, il cellulare nè altri mezzi di riproduzione digitale. Lo
spettacolo inizierà tra cinque minuti”. Prima che io abbia il tempo di
osservarla meglio se n’è già andata via, dietro alla porta dalla quale è
uscita. Mi tolgo la giacca, la appendo allo schienale, mi siedo.
No, forse non è uno scherzo.
E poi: sì, vorrei usare il
cellulare, per raccontare, dopo, agli altri, quello che ho visto, magari con
l’ausilio di qualche fotografia. Ma la ragazza è stata chiara. Adesso mi preme
un’altra considerazione: speriamo che non sia uno di quegli spettacoli che
coinvolgono il pubblico in qualche modo. Anche in questo caso, mi è capitato di
lavorare con compagnie oppure singoli artisti che usavano questo genere di tecniche.
Niente da ridire, ma non ho proprio voglia di essere strattonato. La situazione è già abbastanza inquietante così.
Il sipario si apre, con un
leggero cigolio di anelli di metallo.
La premessa di questo mio
testo era che avrei raccontato in parte
questo spettacolo, e così farò. Non descriverò lo spettacolo: perchè ancora
devo pensarci, perchè ancora non so che
cosa pensare. Mi limiterò a narrare i primi minuti di quello che è
successo, e qualche altra impressione generale.
Il sipario scorre, e davanti
a me c’è una sala vuota, nella penombra. In principio non mi sembra che ci sia
nulla, poi mi abituo all’oscurità, e nonostante i faretti puntati su di me
scorgo, controluce, alcune persone sedute sulle loro sedie, ai loro posti.
Saranno una quindicina. Come se stessero osservando uno spettacolo, solo che
dall’altra parte del sipario aperto, sul palco, ci sono io.
Passano attimi
interminabili. Tutti in platea (ma non doveva esserci il palco, da quella parte
del sipario? continuo a chiedermi) mi guardano fissi. E’ uno scherzo? Non lo
so. So però che sono immediatamente in imbarazzo. La sedia sulla quale mi trovo
non è più comoda, eppure non riesco a muovermi, ogni gesto assolutamente
normale, spontaneo, la cui responsabilità sarebbe tutta della memoria
muscolare, diventa goffo ed impacciato.
I ruoli si sono invertiti?
Sono io l’attore, e loro invece sono gli spettatori?
Ad un certo punto sento un
bisbiglio, quello di qualcuno che non vuole farsi sentire dagli altri. Un uomo
si alza dal suo posto all’ultima fila, borbotta qualcosa, fa per andarsene.
Viene trattenuto da qualcuno che è seduto al suo fianco, forse una donna.
Allora l’uomo dice più chiaramente, e posso sentirlo: “Chiedo scusa, ma questi
spettacoli moderni proprio non li capisco. Sarò ignorante, sarò all’antica, non
ci arrivo, mi dispiace”.
Quasi immediatamente un
altro spettatore (ma è un attore) si volta, da qualche posto più avanti, sibila
“Shshshhs” e gli fa cenno con il dito davanti alla bocca, di stare zitto “Eh, ma
allora!” aggiunge poi indispettito.
E lo spettacolo inizia.
Mi fermo qui.
Sì, avevo, in parte, visto
giusto: lo spettacolo parla dei temi di cui ho letto a proposito del romanzo di
Melville: sincerità, identità personale, morale, materialismo economico, ironia
e cinismo, nello specifico: nel mondo dell’arte teatrale. Si presenta come un
dialogo tra spettatori, un intreccio di storie e di punti di vista, di ideali e
di quotidianità, e racconta l’universo del pubblico in tutte le sue più eterogenee
forme. Mi sembra di riconoscere, in ciascun ruolo, una certa tipologia di
pubblico che, chiunque abbia a che fare con il teatro, conosce bene; tuttavia
il testo non scade mai nella retorica e nelle facili macchiette; è saturo di
umanità, vorrei dire: compassionevole,
partecipe.
Quando il sipario si chiude,
non mi resta che uscire, salire in macchina e tornare a casa.
Un po’ di pensieri mi
frullano in testa, nei giorni successivi.
Li sud-divido in 3 Vasi di
Pandora: pensieri economici, stilistici,
personali.
Quando da bambino mio padre
mi raccontò il mito del Vaso di Pandora, notai subito un’incongruenza incomprensibile
nel comportamento di Zeus. Dunque: secondo il racconto tramandato da Esiodo,
Zeus dona a Pandora il vaso che avrebbe poi preso il suo nome, ordinandole di
non aprirlo. La donna però è curiosa, lo scoperchia e i mali si diffondono nel
mondo. Sul fondo resta la speranza, che non fa in tempo ad uscire prima che la
donna, spaventata dal suo gesto irresponsabile, chiuda il vaso.
Fermi tutti: che cosa ci fa
la speranza nello stesso vaso dei mali del mondo?
Perchè Zeus ha messo nello
stesso insieme un elemento così diverso rispetto agli altri? C’è un messaggio
simbolico che mi sta sfuggendo? La speranza è forse un male?
Se scoperchio il Vaso di
Pandora dei pensieri economici,
saltano fuori (come un pupazzo a molla, che fa più paura che ridere) molte
considerazioni di tipo strettamente monetario, a proposito di questo spettacolo
rappresentato dalla Compagnia del Dopodomani. Come sono stati pagati gli
attori? Come già mi ero chiesto: per un unico spettatore e soprattutto a data
unica, quale ente pubblico oppure privato può aver finanziato una produzione
del genere? Senza avere nessun rientro in termini di notorietà? Nessuna
locandina, nessun logo. Eppure, gli attori erano bravi: nulla di scadente
portato in scena da attori amatoriali disposti a lavorare aggratis per finalità puramente estetiche.
Magari erano gli stessi attori
di qualche spettacolo in scena in questi giorni, che nel contratto avevano come
clausula quella di, a latere della produzione vera e propria (con sbigliettamente e tourneè e via dicendo),
rappresentare questo Uomo di fiducia
così sperimentale. Ma così tanti? Addirittura quindici? Oppure, hanno creduto nel progetto e hanno partecipato
a titolo gratuito, come investimento per
il futuro. Si possono fare mille ipotesi. Resta sempre il problema che una
scelta di non-sostenibilità come questa non riempie la pancia agli attori, e a
quanti ci hanno lavorato. Non immediatamente. E’ un tipo di gioco d’azzardo
molto raffinato, via: soprattutto per chi lo propone.
Ciò che è altrettanto
interessante, e resta nel mio Vaso di Pandora perchè riesco a richiuderlo
abbastanza in fretta, è la questione della profonda relazione (nella nostra
cultura occidentale?) tra arti e denaro. Soprattutto oggi che c’è crisi. Non affronto la questione,
altrimenti serviranno altre mille pagine. Ma alla radice di questo “matrimonio
combinato” tra necessità (che può diventare speculazione) e tensione artistica
(che può diventare semplice decorazione) c’è un ideale che la crisi dei sette anni di questa relazione
ha riportato alla luce; crisi che rischia di rompere questa unione che ha
generato, comunque, molti figli. Figli non sempre disposti ad ammettere che
papà e mamma (necessità economica e tensione artistica) stavano insieme, sì, ma
non si volevano bene: lo hanno fatto per salvaguardare le apparenze, oppure per
non far soffrire troppo le loro creature.
Come fare se la premessa
vacilla, cioè se non ci sono soldi (risorse, tempi disponibili da dedicare alla
sperimentazione) per fare arte bella,
equa e pubblica?
Il secondo Vaso di Pandora
riguarda la scelta stilistica;
presumo del regista, oppure di un fantomatico produttore che ha affidato agli
artisti il concept di uno spettacolo “per un solo spettatore, per un’unica data”.
Premesso che questo sia vero (ma non ho motivo di non crederlo; diversamente,
se qualcuno viene contattato per questo spettacolo come è capitato a me,
scrivetemi), sembra essere una scelta stilistica mossa da una sorta di crisi di
rigetto per le strutture portanti della comunicazione d’arte che, ad un certo
punto, come un motore spinto troppo su di giri, si sono fuse.
La grande piazza della
comunicazione degli eventi, con le sue infinite proposte, ha forse combattuto
una battaglia troppo poco rispettosa del pubblico, mutuando dai linguaggi della
comunicazione di massa gli strumenti per convincere
a tutti i costi la partecipazione del pubblico ad un dato evento.
La sottile linea di confine
tra informazione e plagio.
Questione già affrontata in
passato anche questa, e naturalmente rimasta irrisolta. Centinaia di locandine
affollano i social, migliaia di eventi, profluvi di critiche positive, di
links, di rimandi, creano un labirinto al quale lo spettatore, forse, inizia a
non volersi neppure più avvicinare. Ma anche giustamente, direi.
Chiudo di scatto anche
questo Vaso di Pandora: sono stato abbastanza veloce?
Che cosa resta all’interno?
Un “no” a tutto questo, da
parte di un regista, di un gruppo di attori.
Un “no” che (sicuramente?)
non produce cambiamenti all’interno di questo sistema perverso. Però, una
negazione così interessante, non è vero? Come di una guida che conosce bene la
strada per arrivare a destinazione, in cima alla montagna, l’ha percorsa tante
volte accompagnando gli escursionisti (paganti);
e tutto sommato, per curiosità, anche
se sa che per quell’altra strada non si va da nessuna parte (perchè glielo hanno detto, perchè si è
sempre fatto così, perchè insomma lo sa) ad un certo punto comunque prova a dare un’occhiata a quel
sentiero che si perde nel nulla; finisce su una pietraia, affianca un passaggio
troppo esposto, è pericoloso, oppure inutile. Giusto per essere darsi conferma
da solo che quella solita è la strada giusta.
Un’arte che si pone delle
domande ha più possibilità di sopravvivere di altre che percorrono, per una
razionale e giudiziosa applicazione del principio del massimo risultato con il
minimo sforzo di risorse scarse, le vie più battute. No, forse non è vero:
rischia di perdersi, di farsi del male, di sprecare tempo. E’ chiaramente
un’azzardo. Statistica: su cento tentativi di spostare il confine di ciò che è possibile fare, forse solo uno va a buon
fine.
Chiaramente, l’obiezione:
“uno deve poterselo permettere, di sperimentare strade nuove”; arriva come un
saggio consiglio, come un punto di vista ragionevole, come una fucilata. E’
chiaro. Ma se è così, soltanto così,
senza possibilità di deroghe momentanee a questa legge, tutto è già stato
fatto, e l’arte la fanno i commercialisti e i consulenti del lavoro con le
calcolatrici e i modelli F24.
Terzo e ultimo Vaso di
Pandora: la questione personale. Che
riguarda me, come unico spettatore, di uno spettacolo che non verrà mai più
rappresentato. Questa, attualmente, è la questione più spinosa, ed ha centrato uno
dei punti lasciati scoperti dalla mia armatura, essendo io anche un po’ catafratto, come direbbe quel certo
Diprè. E’ un Vaso che ho già scoperchiato altre volte, e non so se io abbia mai
fatto in tempo a richiuderlo abbastanza in fretta da far restare, sul suo
fondo, qualcosa che possa assomigliare alla sopra già citata speranza. E’
chiaro che ciascuno di noi è continuamente spettatore dell’accadere del mondo.
Da un punto di vista che (a latere di quello che verrà dopo il segno di
interpunzione detto “punto fermo”, al fondo di questa frase) è rigorosamente
personale e, se vogliamo, solitario. (Questa, invece, è la frase che viene dopo
il precedente “punto fermo”) Poi, continuamente si cerca di raggiungere
l’altro, e questa tensione alla condivisione è ciò che ci rende umani.
Raccontare
il mondo, e se stessi, e quello che accade nell’incontro tra queste due realtà;
e c’è anche chi dice che, queste due realtà, separate non sono nemmeno. Con la contraddizione di volerlo fare
avendo a disposizione gli strumenti del nostro mondo stesso. Questo paradosso
ha come lontana (ma neanche troppo) parente la formulazione di Godel a
proposito del fatto che “(primo teorema di incompletezza) ...è possibile
costruire una proposizione sintatticamente corretta che non può essere né
dimostrata né confutata all'interno dello stesso sistema... (secondo teorema di incompletezza) ...nessun
sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza.”
Guarda caso, questi teoremi giocano un ruolo fondamentale anche nelle questioni
riguardanti l’intelligenza artificiale. E magari anche la nostra.
Forse questo spettacolo si può anche intendere come
un antidoto a quella convinzione, un po’ facilona e a buon prezzo, che deriva
dall’uso dei social: attraverso i quali sembriamo sempre connessi, sempre in
dialogo con gli altri, sempre ascoltati, sempre testimoni tutti di tutto,
sempre in condivisione. L’umanità invece si declina anche nella solitudine, in
qualcosa che ho visto solo io, e della quale io sono l’unico ad avere la
responsabilità di raccontarla, se voglio farlo. Lo spettacolo L’uomo di
fiducia della Compagnia del Dopodomani rappresenta bene questo concetto.
Solo a partire da questa solitudine si prende la giusta rincorsa per il
rapporto con l’altro: che può sforzarsi di capirmi, prestare attenzione ai miei
sforzi comunicativi, credermi, oppure avere il sospetto che mi sia inventato
tutto, fin dalla prima riga.
Anche a me è successa la stessa cosa da piccola, con la Palla Strumpallazza. L'ho desiderata così tanto! Vedevo più volte al giorno la sua pubblicità che inframezzava i cartoni del pomeriggio dopo-scolastico, mi faceva troppo ridere quella palla capace di scappare da sola dalle mani di chi la stringeva un minuto prima e un minuto dopo la vedeva rimbalzare qua e là senza poterla riprendere in un ping-pong inarrestabile fra le quattro mura della stanza e il pavimento e il soffitto. Era geniale! Uno scherzo cosmico-gravitazionale. Pregai mio padre con tutte le faccine a mia diposizione, niente da fare non ci pensare neppure, allora non mi restò che mia mamma che i soldi doveva comunque chiederli a mio babbo, ma lei ci riuscì naturalmente a convincerlo, così di corsa al negozio di giocattoli sotto la Galleria con le mie diecimila lire accartocciate nella mano sinistra, spalla a spalla con la mia amichetta dei giochi pomeridiani, lei sovvenzionata dal nonno. Arriviamo a casa mia, la scatola luccicante (anche se non lo era) della Strumpallazza fra le mani dopo averla tolta dalla busta di plastica del negozio, la apriamo, chebellacongliocchieilnasoelabocca fatti di stickers, tuttarancione, oralabuttointerraevedocomefaarimbalzaredappertutto senza che possa prenderla prima di aver corso parecchio, latirofinalmente e... nientediniente - come, niente di niente? Forse ho sbagliato il tiro, rifaccio. Nientediniente, solo un peso di piombo al suo interno la fa ballonzolare praticamente sul posto un po' avanti un po' indietro un po' a destra un po' a sinistra. La delusione fu indescrivibile, non ci provo nemmeno adesso a sintetizzarla e restituirla a posteriori, da donna adulta. Ecco, dunque, perché mio babbo non aveva ceduto con me a comprarmela, lui lo sapeva, lui che aveva Esperienza lo sapeva già che c'era un trucco fasullo acchiappacitrulli, come era solito dire, solo la dolcezza della mamma avrebbe potuto fargli decidere di mettermi di fronte a questa dura realtà, per Imparare.
RispondiEliminaEcco, questo pezzo mi ha ricordato tutto ciò, come un fiume in piena che però scorre lento goccia a goccia onda lieve dopo onda lieve, tranquillità pregustata e finalmente assaggiata.
La tua scrittura si affina sempre più (chissà se ti sono stati utili anche i miei consigli o i miei rimproveri feroci - solo l'accento acuto proprio ancora non riesci a metterlo, ti piace grave, c'è poco da fare).
Mi sono fermata alla fine del racconto della serata, lasciandomi a un altro momento le impressioni/sensazioni.
Per oggi, basta così. Grazie ancora per questo splendido viaggio.
Eccomi alle considerazioni personali, dunque, e subito scaturisce una domanda dal mio Vaso: ma perché mai degli attori BRAVI *non* dovrebbero prestarsi a realizzare e rappresentare uno spettacolo senza fini di lucro, solo mossi da intenti estetici di condivisione del loro Lavoro? Sarà che per me la Speranza è ancora l'Ultima a morire... E non sarà che la pancia si può riempire soddisfatta anche di Altre Cose oltre il materialistico cibo? TUTTI abbiamo provato nella vita che "risorse" e "tempi disponibili" da dedicare alle cose che ci piacciono, che ci saziano a un livello profondo, per fare qualcosa di "bello, equo e pubblico" per noi e per le persone a cui teniamo si trova SEMPRE, quindi non ci sono obiezioni possibili, a maggior ragione se si parla di Arte e non di Business. (continua)
RispondiElimina"E’ chiaro che ciascuno di noi è continuamente spettatore dell’accadere del mondo.", in modo *personale* e *solitario*: è così che portiamo nella nostra Casa Interiore le impressioni che ci ha suscitato ogni spettacolo cui abbiamo avuto la possibilità e la fortuna di assistere. Il tutto immersi in un mezzo che possiamo denominare *pubblico* in quanto assiste alla rappresentazione di ogni manifestazione dell'esistenza con cui la condividiamo. Le sopracitate impressioni/emozioni, dunque, possono volendolo spostarsi dal cuore e dalla testa di ognuno al cuore e alla testa di un-altro-da-sé, in una logica di massima Comprensione e Crescita esperienziale: il fine di ogni Arte, anche quella della Vita.
RispondiEliminaSI CONSIDERINO I COMMENTI SOPRA *CANCELLATI* DALL'UTENTE SONIA LUNA.
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