Vivere in città (potremmo spostare l’accento di tutto
il testo seguente sul concetto di “vivere”) non mette solo in gioco le
relazioni sociali, le prospettive lavorative oppure la sfera culturale. Ha
influenza sulla biomeccanica stessa del movimento nello spazio. In un territorio
aperto (pensate alla campagna, oppure ad un bosco) il numero di spostamenti
possibili è pressochè infinito; gli ostacoli naturali (alberi, fiumi, catene montuose)
possono essere aggirati; tra l’altro, sapete quando si inizia ad uscire da un
bosco nel quale ci si è persi? Quando si è al centro esatto, nel suo punto di
profondo, e si fa un passo in una direzione qualsiasi. Altra cosa rappresenta attraversare
un territorio occupato per il 90% da palazzi. In città, il numero di percorsi
possibli per spostarsi da un punto A ad un punto B è finito, per quanto molto
grande; se inoltre aggiungiamo le regole del: a) non girare in tondo, b) non
passare due volte per la stessa strada, il numero di possibilità si riduce
ancora. L’aggiunta di queste regole, che può apparire arbitraria, è
perfettamente implicita già nel nostro modo di intendere lo spazio e ottimizzare
i tempi di percorrenza; la città ci dà una mano con la sua stessa struttura
architettonica.
La strada (e il suo percorrerla) è sicuramente un
luogo dell’esperienza. E’ provato che, da quando diventiamo indipendenti
imparando a camminare, la nostra mente sviluppa connessioni neurali inedite. Il
movimento ci permette la sopravvivenza: imparare, spostarci in luoghi dove
“stiamo meglio”, fuggire dalle situazioni dannose. La nostra libertà di
movimento è uno degli attributi del concetto stesso di vita. Possiamo, però,
decidere di diventare stanziali, rinunciare in parte oppure del tutto alla
nostra libertà di movimento; oppure, già nasciamo in una situazione che della
stanzialità fa il suo punto di forza, una forma mentis trasmessa con il sangue
materno. Il calcolo dovrebbe essere: quanto ci guadagno a stare qui, quanto
invece a spostarmi. Conoscere il termine di “ciò che è utile per me” è la
premessa fondamentale.
Torniamo in città: se per raggiungere l’obbiettivo
(la destinazione) il numero di percorsi possibili è limitato, limitata è
l’esperienza che se ne può trarre. Da un lato, dunque, abbiamo i vantaggi della
stanzialità cittadina; dall’altra, una rinuncia ad un certo numero di possibili
esperienze negli spostamenti liberi; si configura dunque come
vantaggi
del vivere in città / limitazione dell’esperienza derivata dallo spostarsi
Se il risultato di questa frazione è superiore a 1,
allora significa che rinunciare a parte della propria libertà di spostamento è
compensato, più o meno ampiamente, dai vantaggi della residenza cittadina
stabile. Se al contrario è inferiore a 1, allora la rinuncia alla propria
libertà di spostamento non vale quanto il potersi spostare in modo limitato per
un certo numero di strade. Possiamo sostituire al termine “città” quello di
regione, paese, continente. Tecnicamente non è ancora possibile abbandonare con
facilità la superficie terrestre, ma chissà.
Visti dall’alto, i nostri spostamenti seguono traiettorie
ben definite lungo corridoi formati dai palazzi, percorsi che ricordano in modo
inquietante i labirinti dei topi da laboratorio; per raggiungere il punto B
partendo dal punto A, ottimizziamo fatica e tempo scegliendo il percorso più
breve; oppure, nel caso in cui ci siano zone in cui preferiamo non passare,
operiamo scelte che scendono a patti con la lunghezza del percorso per venire
incontro alle nostre esigenze emotive. I nostri spostamenti per le strade della
città sono spezzati da angoli variabili, meno frequentamente linee ad arco; e
comunque, anche in quei casi, curve non decise dalla nostra volontà ma dal
nostro essere in fondo ad un canyon dalle pareti perfettamente perpendicolari
al terreno. Ci spostiamo (spostiamo il nostro corpo) attraverso luoghi pubblici,
ma solo di transito, che raramente consentono soste; il percorso sicuro,
dedicato, è una piccola parte dello spazio disponibile tra palazzo e palazzo,
la maggior parte del quale è per il transito dei veicoli. Da un lato abbiamo
vetture in coda, oppure velocemente di passaggio, dall’altro, la parete di costruzioni
di proprietà altrui; l’orizzontale è per lo spostamento, il verticale è per il
riparo, il luogo privato, il luogo dove dormiamo. L’uso dell’automobile si
sclerotizza nella difficoltà di trovare un posto dove fermarsi, un parcheggio,
si infrangono le regole interiorizzate del non passare due volte nello stesso
posto, del non perdere tempo, e si gira in tondo cercando un tratto di accosto
al marciapiede non occupato. E ci si arrabbia, perchè si perde tempo.
Da quando impariamo a camminare, prende il via un
processo di appropriazione dello spazio, tramite i ricordi: una strada non è
solo una strada ma un conglomerato di sensazioni e di esperienze passate, che trasformano
lo spostamento in un camminare attraverso la nostra storia, fattasi invisibile
ma presente dentro di noi e proiettata fuori di noi. Per i più attenti, i
monumenti dovrebbero creare spazi di esperienza condivisa, ma forse
l’affollamento di cartellonistica pubblicitaria ci ha fatto sviluppare una
scorza difficile da penetrare, anticorpi ai messaggi, quali che siano.
Quando ero adolescente portavo in giro il cane di una
signora anziana che non aveva possibilità di muoversi da casa; il cane aveva
bisogno di camminare, la signora non poteva più. Ogni volta che il cane ed io
passavamo davanti ad una certa scuola elementare – anche se non c’era nessuno –
il cane entrava in agitazione, tirava il guinzaglio, voleva giocare. In
passato, gli era capitato di zampettare di lì all’ora di uscita degli studenti,
e aveva sovrapposto a quel tratto di strada il ricordo del gioco. Anche il cane
aveva la sua geografia emotiva. Capitò poi un giorno che incontrassimo un altro
cane, in quel tratto di strada, e la giocosità di quello che portavo io
contagiò anche l’altro. Mi venne in mente allora che, sebbene il secondo cane
non “sapesse” perchè quel tratto di strada fosse “divertente”, aveva appreso
dal mio cane quella reazione. Dunque, le conseguenze di un evento possono
diventare virali, anche se il soggetto che le trasmette non racconta
esattamente il perchè di questo. Se supponiamo che nell’essere umano il
linguaggio del corpo trasmetta all’altro più di quanto pensiamo, sicuramente
sarà capitato anche a me di influenzare qualcuno, camminandogli accanto in
certi tratti di strada, così come io stesso sarò stato influenzato da altri.
Senza dirgli perchè quel luogo è triste, oppure allegro.
A tutto questo, aggiungiamo come ultimo termine della
nostra equazione immaginaria la tracciabilità tramite dispositivi mobili: che indicano
dove siamo, quale strada abbiamo percorso, e calcolano meglio di noi il
percorso ottimale per raggiungere un obbiettivo. Con buona pace del fattore
casuale. La nostra posizione nello spazio diventa un algoritmo, il nostro
spostamento la traccia luminosa di pixels anzichè chimica di una lucciola.
* tutte le immagini sono mappature di performances di walking-art
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