martedì 29 luglio 2014
Quella fotografia
“Il meccanismo della maschera,
più o meno invariabilmente associato alla tematizzazione del volto,
non fa che consolidare e indirizzare ulteriormente
il funzionamento di quel processo:
lo schermo è appunto ciò su cui qualcosa si proietta visibilmente
ma è anche ciò che copre e occulta.”
[da L’immagine che siamo, Di Monte / Riedmatten, Carocci]
Mettiamo da parte, per il tempo di qualche pagina, la differenza tra ciò che non si può fare e ciò che non si deve fare. Non dovremmo sottovalutare la questione del dovere, ma possiamo provare a fingere che non sia rilevante, nel mondo che stiamo andando ad immaginare. E’ un esercizio di estro, se ne fanno molti, consapevolmente o meno, aggiungiamone un altro, questo. Siamo in laboratorio, è tutto sotto controllo, non può accadere che il risultato del nostro esperimento abbandoni questo luogo e si diffonda nel mondo. Abbiamo indossato camici bianchi, maschere protettive, guanti. Dunque, tentiamo: premiamo il bottone, azioniamo la centrifuga, aggiungiamo l’additivo segreto, ed ecco che se ne va via la differenza tra cosa non si può fare e cosa non si deve fare.
Tolta questa differenza, possiamo coniare un neologismo: le cose che non si possono fare e quelle che non si devono fare ora si chiamano: non-si. Che siano cose che non si possono fare perchè impossibili per le leggi della fisica di questa parte di universo, che non si possono fare perchè non ne siamo (ancora) in grado, oppure che siano cose che non si possono nemmeno immaginare; e che siano cose che non si devono fare, perchè moralmente riprovevoli, oppure dannose per se stessi e per gli altri; non importa, ora si chiamano tutte cose che non-si. Stiamo ancora tutti bene? Successo qualcosa? L’esperimento è sempre nella sua teca a tenuta stagna, tutto bene. Che non vengano a saperlo quelli del Dizionario della Crusca, che abbiamo coniato un neologismo; al massimo lo faremo passare per una sigla, un’ abbreviazione di una formula, in ogni caso non-si resta qui, non verrà usato nell’italiano scritto nè tantomeno parlato.
Che sia un’aberrazione, è chiaro: affermare che non ci sia differenza tra una cosa che non si può fare per ragioni fisiche e una cosa che non si deve fare per ragioni morali rende incerto ogni successivo passo, proietta immediatamente la mente del lettore a tutte quelle azioni che non si dovrebbero fare ma si fanno, a tutte quelle cose che si desirano ma sono impossibili, a tutte quelle cose che immaginiamo possano accadere ma sono troppo lontane nell’orrore (oppure nella distanza geografica) per poter essere considerate; chiuse dentro quattro confini fatti di parole. Non importa, persistiamo nell’errore. Ora si chiamano tutte cose che non-si.
Premesso questo, è possibile immaginare un testo che non-si? Un’opera d’arte che non-si? Una musica che non-si? Una fotografia che non-si? Mi riferisco, in questo ultimo caso, a “quella fotografia”, che per qualche giorno è comparsa sui social networks: “quella fotografia” che i giornali mai si sarebbero sognati di pubblicare, che i canali televisivi non hanno mandato in onda per ovvie ragioni, “quella fotografia” che anche a cercarla in Rete sui motori di ricerca si fa fatica, “quella fotografia” che, così come è sbocciata (come un fiore velenoso) sulle bacheche di molti dei nostri contatti, condivisa e ri-condivisa, allo stesso modo è finita in fondo alla pagina, sotto centinaia e centinaia di altre notizie, indifferentemente, che siano cose stupide oppure intelligentissime, lodevoli e generose oppure immani perdite di tempo. Mi riferisco a “quella fotografia”.
Quella del bambino, palestinese, morto, con la testa in frantumi.
Una sola parola in meno nella frase precedente, e sarebbe stato tutto diverso.
Non sarebbe più stata quella cosa lì.
A questo punto credo che circa 2/3 dei miei abituali lettori abbiano smesso di leggere, e siano andati altrove per la Rete. Perchè se ne parla tanto ed in tutti i modi, di quello che sta succedendo a Gaza; perchè abbiamo fatto indigestione di opinioni e punti di vista, confutazioni e ri-confutazioni; perchè non sappiamo che cosa fare, e se vogliamo farlo; perchè ci è ben palese la nostra impotenza, oppure ci è stata ben nascosta la nostra possibilità di porre fine a qualcosa che, a prescindere da chi abbia torto e chi abbia ragione, umanamente ci ripugna; e per questo, forse, la quantità di informazioni ci aiuta ad esorcizzare, a tenere lontano, come un veleno che si prende a piccole dosi per poter sviluppare la necessaria resistenza, sempre che non accada a noi, prima o poi (ma a quel punto non saremo più spettatori, e non sarà più quella cosa lì).
Ogni considerazione politica, sociale e/o storica verrà lasciata fuori dai margini di queste pagine fatte di bit, non per un’infinità di ragioni bensì per una soltanto. E’ di “quella fotografia” e basta, che vorrei scrivere, per quanto lo trovi difficile, forse impossibile. Che sia un falso, che non sia una foto recente, che sia stata manipolata, che non si riferisca all’attuale conflitto, che non sia stata ritoccata ma costruita “scenograficamente ad arte” nella realtà, che chi l’abbia pubblicata avesse le sue ragioni, al netto delle ragioni di chi non avrebbe voluto vederla (davanti ai suoi occhi come a quelli degli altri), che siano chiari oppure subdoli gli intenti di diffondere una fotografia “come quella”; tutto questo appartiene ad un’altra fetta di mondo. Scriverò solo di “quella fotografia” che mi ha diviso tra: la tentazione di osservare a fondo, e quella di scorrere e basta, per non vedere l’orrore. Quando ho visto “quella fotografia” mi sono detto: “No, questa no, è una fotografia che non-si...” e mi sono fermato.
Sulla sinistra della fotografia c’è un braccio, forse di un medico (con una macchia di sangue sulla pelle, sangue non suo) che trattiene un uomo. Al centro della fotografia c’è quell’uomo, l’espressione del quale ci rende impossibile definirne con esattezza l’età, e potrebbe essere il fratello, il padre, un conoscente della vittima; e urla, ulula, ha la bocca aperta ma non si capisce se stia inspirando oppure espirando, parole oppure un urlo, muto oppure fragoroso. Sulla destra della fotografia c’è un bambino: disteso su un letto, forse d’ospedale, troppo pulito e ordinato, come se avessero appena adagiato il suo corpo; ha le braccia e le gambe abbandonate. Al posto del cranio, sulla parte posteriore e laterale, ha una voragine, rosa, rossa e nera. Non c’è quello che ci aspetteremmo: il cervello è andato perso, distrutto, asportato. Non ne vediamo nemmeno più il volto, in parte voltato, in parte spappolato, disperso.
E’ una fotografia che non-si: per l’effetto che ha, che vorrebbe avere, che dovrebbe avere; diffonderla forse significa avere troppa fiducia in un’intenzione, positiva o negativa che sia; avere la presunzione di sapere come andrà a finire; e invece l’effetto è incontrollabile, e qualora sia stata condivisa e ri-condivisa per ottenere uno shock nell’osservatore, una reazione inaspettata, anche in questo caso sui lunghi tempi che cosa si ottiene; forse di averla resa normale, sopportabile; e nemmeno si può dire che si possa in qualche modo, prima, preparare il pubblico, perchè “quella fotografia” colpisce l’emozione prima ancora dell’intelletto; un archetipo sepolto negli abissi umani, prima che si attivi una possibile reazione intenzionale.
Ecco che, per la forza stessa di “quella fotografia”, il mio scrivere vira in una direzione di giudizio. No, non è quello che voglio: servirebbe, basterebbe la fredda oggettività di un entomologo che studia uno scarafaggio trafitto da uno spillo? Il linguaggio piano, preciso, pulito, di un astrofisico che tiene una lezione sulle dimensioni delle galassie? E’ una fotografia, “quella fotografia”, che non-si. Eppure, è avvenuta: è stata scattata, messa in Rete, condivisa, ri-condivisa. Dunque, esistono cose in questo mondo che vanno contro il postulato del non-si, che stiamo provando a tenere in vitro nel nostro laboratorio immaginario. D'altro canto, si potrebbe affermare che sia importante che queste cose si vedano: il prezzo da pagare, per un commento intelligente, per un'idea sensata, per una crescita personale, è la superficialità di altri mille sguardi?
Il mondo fuori è un’eccezione a se stesso.
La morte, in qualche modo, resta uno scrigno chiuso. Non lo si può aprire a meno di non esserne risucchiati dentro, senza poterne uscire, senza poterla raccontare. Il suo è il mistero della prima persona: lascia spazio ad immaginazione, teorie, religione e scienza, crea territori di libertà dove ciascuno può ipotizzare. Si può speculare sul suo significato, sul suo aspetto, ma non sul contenuto reale. Un corpo senza vita mantiene un’identità; ci si separa dalla sua decomposizione in tempo per non vedere il materiale che riempie quell’identità. Quando la morte è presente, è presente nell’identità di un altro, e dunque non è la nostra. Ci si libera, ci si affranca, facendo ipotesi, da vivi.
Ma “quella fotografia” svela il gioco di prestigio. Mostra che cosa c’è dentro. Sottrae un’identità, e fa sì che al’interno di quel buco rosa, rosso e nero si possa immaginare la propria presenza, la propria fine. Mette a dura prova le proprie convinzioni sulla sopravvivenza dopo il termine ultimo, smonta i pezzi di un meccanismo, ne mostra gli ingranaggi, ciascuno dei quali non contiene l’identità dell’organismo biologico vivo, e la cui somma non restituirebbe comunque una parvenza di “rispettabilità” all’identità. Ecco, è tutto qui: si scarta il pacchetto, e non si trova niente di quello che si era immaginato. E la carta del pacchetto, che fino a pochi istanti prima era il regalo, è puro accidente passeggero. Senza senso.
“Quella fotografia” che “non-si” pone al centro del discorso una testa, e poi la sottrae, lasciandoci soli, di fronte ad un contorno; disintegra la testa, dunque anche il pensiero, ne lascia un buco vuoto, pone al cospetto dell’essere una cosa fatta di materia che pensa; e senza il cui supporto non se ne possono concepire più, di pensieri. E’ una damnatio memoriae ma al contrario: ecco, questo è il corpo, qui c’era materia cerebrale, ma ora non c’è più. Potrebbe esserci chiunque qui dentro, quindi: tutti. I responsabili diretti oppure indiretti di “quella fotografia” (che non-si) hanno ottenuto un effetto più perverso della cancellazione dell’identità: hanno messo in luce il suo annichilimento, la sua poltiglia informe, ne hanno tracciato un preciso profilo materico, dandole un peso, un colore, una consistenza, e nulla più resta dei milioni di mondi che il pensiero di quell’identità poteva (e avrà sicuramente) concepito durante la sua esistenza biologica. Altri diranno: non confondere la fotografia con l'atto che racconta. La colpa è altrove, lo scatto testimonia.
Le maschere funerarie; i busti in marmo; i ritratti su tela; il “ti prego, non in faccia” del condannato a morte dalla mafia che implora affinchè la sua immagine non venga deturpata, almeno quella, e sia riconoscibile dai familiari, quando sarà cadavere; quel fotografo di cui non ricordo il nome, che si recò all’obitorio per fotografare che cosa ci fosse dietro al volto e che disse, tempo dopo: “solo io so quanto mi è costato scattare quella fotografia”; l’ultimo gesto disperato dei passeggeri del volo abbattutto nei cieli dell’Ucraina, le mani portate al volto, per nasconderlo, per sottrarlo all’impatto e alla distruzione; ecco, si intravede un percorso che termina, in questi giorni, con “quella fotografia”, che mette in luce tutto il niente, dei carnefici e delle vittime, su social networks che accumulano dati senza ricordarsene; una sorta di allenamento al combattimento che promette (mentendo) di rendere forti, resistenti alla vita reale; e invece sclerotizza i muscoli e li rende enormi, appariscenti, come nel body-building più estremo; muscoli totalmente inutili alla vita reale, fuori dalla Rete. Un'oscena selfie di grado zero.
“Quella fotografia” potrebbe essere la locandina del film di un possibile futuro verso il quale ci stiamo avviando (e solo da spettatori): il film della trasparenza totale, assoluta; così nociva perchè non permette all’essere umano (come lo conoscevamo, come vorremmo che restasse, come non ci rendiamo conto che ci è già stato in parte o del tutto sottratto) di muoversi in una sfera privata, incerta, dunque possibile, in uno spazio sconosciuto e misterioso dove sia ancora probabile, sognabile qualcosa; dunque dove sia possibile essere liberi. Invece, è tutto lì, presente, trasparente, niente di più, “quella fotografia” non nasconde nulla, palesa il nulla, esposto come un cranio svuotato.
E la libertà della Rete, di fronte a “quella fotografia”, si configura così: c’è solo il pulsante per mettere un like, oppure passare oltre senza fare nulla; il pulsante di non-like non è previsto; non è contemplato il pulsante del non-si. Buona visione di tutto un mondo che non-si: non importa se non si deve, non si può. Non-si, ma eccolo lì. Lo dice anche il neologismo stesso: non, cioè prima il no; poi il sì, si può, si deve; infine la compresenza di entrambi, dove nè il “non” nè il “sì” hanno più un senso.
“L’anima umana ha palesemente bisogno di sfere
nelle quali possa sostare in sè, senza lo sguardo dell’Altro:
è dotata di impermeabilità. Un’illuminazione totale la incendierebbe
e provocherebbe una particolare forma di burnout spirituale.
Solo la macchina è trasparente.
Spontaneità, evenemenzialità e libertà,
che caratterizzano generalmente la vita,
non ammettono trasparenza.”
[da La società della trasparenza, Byung-Chul Han, Nottetempo]
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