Quando ero malato, da piccolo, il tempo passava in modo diverso. Ricordo mio padre, che tornava alla sera e mi portava qualche regalino, soldatini per giocare, ad esempio. Ricordo alcuni incubi che ho fatto quando ero molto piccolo, con la febbre alta. Infilarmi in un buco per recuperare un pallone, e ritrovarmi intrappolato, con la sabbia che ostruisce l’uscita. Oppure, sentire che le coperte soffiano contro di me aria calda, respirata, come se fossero vive e mi alitassero addosso. Vampiri, dai ballatoi di una casa, e anche un’auto parcheggiata lì vicino aveva fauci da vampiro. Oggi, quando sono malato leggo, scrivo, faccio cose che dovrebbero essere in realtà il mio lavoro quotidiano, e invece un po’ per colpa mia, un po’ per colpa di questa società, restano a latere, contrattando ore al sonno. Quando sono malato scopro anche quanto sono lunghe le giornate, e come il sonno può trasformarle in brevi. Perdo tempo, e mi sento un po’ scusato per questo. Ero affetto da attivismo frenetico, ma sto imparando a recuperare i tempi naturali di gestazione di un’idea, di un’azione, di un intento. Nella malattia c’è qualcosa di atavico, penso agli stregoni che curano considerandola un momento di passaggio verso altro.
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