There is this mortal danger: the wear of words.
If – on the one hand – the possibility of sharing the information in a simple and immediate (that is for “going to fast”, and not for “without mediation”) way favors its virality, to the other one it runs the risk of losing the sense of its active contents, which are such they are as constituted in practice.
And the practice of content requires a greater expenditure of energy then a simple click with the left mouse button. It’s easier to stop at the intention, thinking that we had done our part with giving simply a boost to information in order to move it again, but avoiding to get involved deeply, to truly realize the concepts, bringing them into the world.
We all agree, today, about the importance of sharing, we are all convinced that it is “a good thing” to spread important news to the circle of our friends, who would deny someone a “like” on a post, on a photograph? It’s all so simple, that becomes a commonplace and in its banality is not seen for what it is. The information bearier of content it’s a call to the action, not a call to just reaffirm. The network has given the impression that all are communicators and journalists, but there are few who “make” the facts about what – then – should speak communicators and journalists.
So it so happens that the abuse, misuse and recurrence of words (without that these really “happen”) soften the meaning and the importance of content, making it colorless and tasteless, as an appointment of love – postponed indefinitely – never really realized. Lacking participation, the “really do”, the “being present”.
When I was asked to become the editor of a webzine dedicated to the art in Amsterdam (and not only), for the umpteenth time I had to deal with a feeling hard to describe, but that – with time – I learned to communicate to others through a metaphor that takes its cue from the ancient Egyptian religion: the “psicostasis”. During his journey to the underworld, the soul of the deceased is at the presence of Anubis, laying on a side of the scale the heart of the deceased, and on the other side a feather (or Maat, who embodies the concepts of truth and justice). The soul of the deceased can continue its journey only if his heart is lighter than the feather.
Daily life, practical needs, the inertia of a social and cultural degradation, the difficulties to see the results of our efforts, the disappointed expectations: are all factors that lead us to think that “not worth it” ; as well as the objective difficulties to implement the concepts, the effort to get involved, to partake.
Still, I think we should do; the daily battle for art takes place on two fronts; new forms still to explore of the tomorrow’s creativity; and the perseverance to maintain firmly, through continuous practice, the positions won in this war absolutely unequal, according to the world and having high aspirations – and at the same time.
C’è questo pericolo mortale: l’usura delle parole.
Se da un lato la possibilità di condividere l’informazione in modo semplice ed immediato (che sta per veloce, e non per “senza mediazione”) favorisce la sua viralizzazione, dall’altro si corre il rischio di perdere il senso fattivo dei suoi contenuti, che sono tali sono se si concretizzano nella pratica.
E la pratica dei contenuti richiede un dispendio di energie maggiore di un semplice click con il tasto sinistro del mouse. E’ più facile fermarsi all’intenzione, pensare di aver fatto la propria parte semplicemente dando una spinta all’informazione affinché si muova ancora, evitando però di mettersi in gioco profondamente, per realizzare davvero i concetti, farli venire al mondo.
Tutti siamo d’accordo, oggi, sull’importanza della condivisione, tutti siamo convinti che sia giusto diffondere una notizia importante al proprio giro di amicizie, chi negherebbe a qualcuno un like su un post, su una fotografia? E’ tutto così semplice da diventare di un banale che nella sua banalità non viene visto per quello che è. L’informazione, portatrice di contenuti, è un invito ad agire, non un invito a riaffermare e basta. La Rete ci ha dato l’impressione di essere tutti comunicatori e giornalisti, ma sono pochi quelli che “fanno” i fatti di cui – poi – dovrebbero parlare i comunicatori ed i giornalisti.
Accade così che l’abuso, l’uso improprio e la reiterazione delle parole (senza che queste accadano veramente) smussino il significato e l’importanza dei contenuti, li redano incolore ed insapore, come un appuntamento d’amore che – rimandato all’infinito – non si realizza mai veramente. Manca la partecipazione, il fare davvero, l’essere presenti.
Quando mi è stato chiesto di diventare il curatore di un webmagazine dedicato all’arte, per l’ennesima volta ho avuto a che fare con una sensazione difficile da descrivere, ma che – con il tempo – ho imparato a comunicare agli altri grazie ad una metafora che prende spunto dall’antica religione egiziana: la psicostasia. Durante il suo viaggio nell’aldilà, l’anima del defunto si trova al cospetto di Anubi, che pone su un piatto della bilancia il suo cuore e sull’altro piatto una piuma (ovvero Maat, che incarna i concetti di verità e di giustizia). L’anima del defunto può proseguire il suo viaggio solo se il suo cuore è più leggero della piuma.
La vita quotidiana, le necessità pratiche, l’inerzia di una realtà sociale e culturale in degrado, le difficoltà a vedere i frutti del proprio impegno, le aspettative deluse: sono tutti fattori che ci inducono a pensare che “non ne valga la pena”; così come le difficoltà oggettive a mettere in pratica i concetti, la fatica di mettersi in gioco, a partecipare.
Eppure, io credo che si debba fare; che la quotidiana battaglia per l’arte si svolga su due fronti; le nuove forme ancora tutte da esplorare della creatività di domani; e la costanza a mantenere saldamente, attraverso la pratica continua, le posizioni conquistate in questa guerra assolutamente impari, stando al mondo avendo aspirazioni elevate – e allo stesso tempo.
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