lunedì 4 maggio 2015

Davide Sisto - Narrare la morte, dal romanticismo al post-umano

Ciao Davide,
ho letto con molto interesse il tuo libro - tutt'ora lo consiglio spesso, in primis per la sua centralità rispetto alle questioni contemporanee - e da tempo seguo con piacere i tuoi commenti e i tuoi post su FB a proposito delle tue attività. Mi ci è voluto del tempo per elaborare la domanda che sto per farti, e ti chiedo fin da subito di perdonare una certa carenza di "precisione formale", dal momento che mi muovo in un ambito - quello filosofico - non di mia competenza. Giungo al dunque:
Sono d'accordo con te sull'idea che la morte sia una "qualità" della vita che la rende tale e che ci restituisca la nostra umanità; e che tutte le pulsioni immortaliste (dal postorganico in poi) portino con sé il rischio di una disumanizzazione… tuttavia, alle volte mi chiedo: non è forse un rischio da correre? Così come la natura sperimenta, non sarebbe interessante scoprire che cosa può essere un'esistenza senza una barriera di disgregazione dell'io? Come possiamo dire che oltre l'umano (e dunque il suo morire) in altre forme di permanenza ancora da scoprire non ci sia nulla di buono? Considerando anche che sarebbe un assecondare una pulsione naturale, quella dell'istinto alla sopravvivenza.


Grazie Andrea per l'attenzione verso le mie cose. Mi fa veramente piacere. Certo che sarebbe più stimolante discuterne a voce. Però, prima che ciò accada, ti provo a rispondere qui. Le domande che mi poni sono domande più che condivisibili e, sebbene in tutta la storia dell'umanità ci sia sempre stata la ricerca dell'immortalità, mai come oggi tale ricerca è al centro del dibattito pubblico, visti gli sviluppi senza precedenti della scienza e della tecnologia. Tuttavia, parto dall'ultima cosa che scrivi. "Istinto alla sopravvivenza": istinto a mantenersi in vita, secondo me, non vuol dire istinto a non morire mai. Può sembrar sottile come ragionamento, ma non lo è. Io sono convinto che sia nella "natura" di ciò che è organico il senso del ciclo: inizio, sviluppo e fine. Nell'istante dell'inizio c'è già l'ombra della fine. Nel primo vagito, dopo il parto, è già incluso anche l'ultimo vagito, che precede il decesso. Ciò, secondo me, è una legge della vita stessa. Non c'è vita, senza morte. La processualità del vivere include la morte. Le mie ricerche, ultimamente, si stanno concentrando sul significato filosofico dell'apoptosi (il suicidio cellulare, in base a cui - grossolanamente - le cellule si suicidano per permettere la vita dell'insieme; senza questo suicidio ci ammaliamo di tumori e altre malattie mortali). Il fatto che il nostro sviluppo stesso includa un meccanismo di morte per favorire il processo di crescita è indice di quanto non si possa escludere il rimando reciproco tra vita e morte. Con questo non voglio negare l'importanza di tentare costantemente ad allungare gli anni di vita e a migliorare il nostro periodo di vita. Ma allungare costantemente la vita non significa negare la morte. E poi, su un piano simbolico/sociale/"umano"/ecc., il fatto che prima o poi moriamo ci mette di fronte alle nostre fragilità, al fatto che non siamo dei "superman" e questo, a mio avviso, è molto importante da un punto di vista pedagogico e nel modo in cui ci relazioniamo con gli altri. Di fatto tutta la nostra vita è costellata di "morte" (la fine di una relazione sentimentale, di un'amicizia, il nostro giocattolo preferito che si rompe quando siamo bambini, la fine del libro che stiamo scrivendo e così via). E lo stesso nostro tentare quotidiano non avrebbe senso senza la possibilità del fallimento definitivo. Io credo che la morte sia umana, mentre non lo sia l'immortalità, proprio perché siamo esseri organici, naturali. Tale consapevolezza, ripeto, non implica l'accettazione supina, la rassegnazione a non migliorarci costantemente e a non progredire scientificamente. è necessario farlo, ma nella consapevolezza che la fine è inevitabile. E ciò non è neanche un male. In fondo, credo che un pezzetto di noi resta comunque immortale negli altri e nelle cose che abbiamo fatto. E va bene così.



Per Vladimir Jankélévitch l’uomo è davanti alla morte come davanti alla profondità superficiale del cielo notturno: non sa a cosa dedicarsi e la sua riflessione resta senza materia. Il legame tra il pensiero e la morte diviene ancor più problematico quando i progressi della medicina consentono di delimitare nella morte due dimensioni non distinte dalla natura: la cessazione dell’attività neurologica e la cessazione dell’attività cellulare. 
Il volume ricostruisce il percorso teorico che porta dal ruolo simbolico della morte nella vita (Schelling, Fechner e il romanticismo tedesco) alla sua rimozione socio-culturale nel XX secolo (Scheler, Jonas, Baudrillard, Morin) e all’idea contemporanea che la medicina e la tecnologia possano realizzare l’immortalità terrena (Günther Anders, il post-umano). Tale percorso evidenzia la centralità del tema della morte per comprendere, da una parte, il ruolo dell’uomo nel mondo e per capire, dall’altra, le trasformazioni subite dal rapporto tra naturale e artificiale.

Davide Sisto è assegnista di ricerca in Filosofia Teoretica presso l’Università di Torino. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università di Verona ed è membro del Direttivo del Cespec (Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo) di Cuneo. Tra le sue pubblicazioni: Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della natura (Milano 2009). Ha curato, insieme a Giacomo Pezzano, il volumeImmagini, immaginari e politica. Orizzonti simbolici del legame sociale (Pisa 2013).


http://www.edizioniets.it/scheda.asp?N=9788846738516

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