venerdì 9 maggio 2014

EDS | 2 di 14 | Al bar


Esperimenti di scrittura, 2 di 14
Al bar
ovvero Chi volete che liberi? E la folla gridò: “Bar Abba! Bar Abba!”
sulle note del noto gruppo musicale svedese.


Scrivere (al) “bar” è molto generico. Esistono moltissimi tipi di “bar”, uno per ogni popolo, uno per ogni città, per ogni quartiere, per ogni barista; verrebbe da dire che ci sono “infiniti bar” (alle volte uno accanto all’altro, alla faccia di ogni teoria macro/micro economica) che ogni giorno compaiono e scompaiono; niente di più vicino ai cicli cosmici di creazione e distruzione. E (quasi) tutti questi bar sono già stati ampiamente de-scritti da moltissimi de-scrittori, forse ben più di uno per ogni bar (possono coesistere due scrittori nello stesso bar, contemporaneamente? Si sfideranno all’arma bianca? Collaboreranno? Sono curioso di sapere se la letteratura scientifica annovera studi specifici su casi come questi). Tuttavia, suppongo esistano bar senza uno scrittore “di casa”, così come scrittori senza un “bar” dove scrivere, e questo rende sicuramente più avventurosa l’esistenza, considerando quanti incontri fortunati possano ancora avvenire tra scrittori e bar. Forse lo stesso bar è diverso per ciascuno di noi, forse ciascuno di noi crea il bar che frequenta, sento l’eco del principio di indeterminazione di Heisenberg, è lo sguardo che crea la realtà, la teoria dei quanti, magari dei guanti se il barista li indossa, ma sarebbe allora un bar di lusso, per scrittori di lusso, chi può permettersi oggi il lusso di fare lo scrittore.
D’altro canto, credo anche che al barista – generalizziamo, che sia il gestore oppure il dipendente – faccia piacere avere uno scrittore nel proprio bar. Entrereste in un bar deserto? Dunque qualcuno impegnato in un’attività intellettuale – fantastico, intellettuale! – certo non può che dare lustro al locale. Dobbiamo però considerare una serie di casi, di interazioni che danno risultati finali molto diversi tra di loro.
Scrittore introverso con barista introverso =
ciascuno si fa i fatti suoi, e tutto finisce lì.
Scrittore introverso con barista estroverso =
il barista “disturba” lo scrittore. Cambierà bar? Lo inserirà come vittima nel proprio thriller?
Scrittore estroverso con barista introverso =
il barista gli farà capire che deve scrivere e non chiacchierare?
Scrittore estroverso con barista estroverso =
probabilmente parleranno spesso del più e del meno, con conseguenze funeste sui tempi di completamento del romanzo, o del racconto, o della poesia, o di quello che è. Che non è un male se lo scrittore è mediocre, ma chi può dirlo prima di aver letto.
Quando ero ragazzo, ricordo di aver scelto un bar piuttosto lontano da casa, per mettermi a scrivere uno dei miei romanzi. Era la storia di un toro che scappava da un mattatoio, in principio nessuno se ne accorgeva, il toro scorrazzava libero per la città e nei vari capitoli raccontavo come veniva avvistato casualmente dai passanti, e le loro reazioni nel trovarselo di fronte. Il romanzo finiva male, una pattuglia avvistava il toro con le corna incastrate in un reticolato vicino all’autostrada, e decideva di abbatterlo per evitare gravi incidenti, prima che riuscisse a liberarsi e a correre in mezzo alle auto. Il carabiniere che apriva il fuoco si rendeva conto di quanto fosse difficile ucciderlo, non gli bastava un proiettile solo. Era una sorta di tragedia collettiva della solitudine, compresa quella del toro. Il bar dove avevo scelto di scrivere questa storia si trovava (si trova, c’è ancora?) di fronte all’ospedale Sant’Anna, quello “dove nascono i bambini”, ed era frequentato da futuri padri preoccupati, gestanti che prendevano il caffè prima di entrare in ospedale, parenti con regali e fiocchi azzurri e rosa, qualche studentessa di ostetricia. Ai tempi si poteva ancora fumare nei locali pubblici. Che cosa prendevo? Succo di frutta, di solito. Forse era per quello che le studentesse di ostetricia non mi filavano nemmeno per sbaglio.
Oggi, riprovando l’esperienza di scrivere in un bar per descrivere che cosa “voglia dire”, mi rendo conto più precisamente di tutta una serie di cose. In primo luogo, i discorsi (o no) della gente: quelli che entrano e non dicono una parola, quelli che invece capisci subito che non vedono l’ora di attaccare bottone. I discorsi da bar, su calcio, tempo, politica. Tu scrittore scrivi, ma non puoi fare a me di ascoltare – anche “solo” inconsciamente – quello che stanno dicendo. Credo che il bar (la locanda, il pub) sia stato il primo social network della storia: ciascuno entra, dice la sua, si atteggia come vorrebbe che gli altri lo percepiscano, esce. Con il suo scrittore seduto al tavolino, il bar per osmosi filtra la realtà “fuori”, in una sorta di distillato di luoghi comuni che potrebbero benissimo essere verità assolute – e in fondo lo sono – di umanità varia che si ferma oppure no per un istante, per un caffè quando deve restare sveglio, per un bicchiere di vino quando vuole far dormire la mente. Attraverso le vetrine, lo scrittore può guardare per strada la gente che passa: meglio di molti canali televisivi, la vita è lì, ad un passo, eppure lui è comodamente seduto al suo tavolino. Non può cambiare canale, e questo non può che fargli bene, in questo caso. Come se fosse un’estensione di casa sua, lo scrittore si trova in un luogo che gli permette di scrivere, ma anche di entrare in contatto con gli altri, senza per questo dover scendere troppo a patti con la sua intimità, la sua privacy. Vedo avventori giocare di scaltrezza per chi si accaparra il quotidiano, sempre solo uno, così che per sapere che cosa succede nel mondo è necessario aspettare il proprio turno, oppure farselo raccontare. Il bar che ho scelto per l’esperimento ha tre videopoker. Credo che questo faccia immediatamente declinare la scrittura verso considerazioni sociali e/o fataliste. Fortunatamente, il bar è anche e ancora il luogo dove si dà il primo appuntamento: qui saranno nati amori, oppure ne sarà stata certificata la morte (cerebrale?), magari qualcuno era già pronto per il conseguente espianto, a-mors tua vita mea. Scrivere al bar con un computer sembra voler dire al mondo “sto lavorando a qualcosa di importante” oppure “è lavoro, è studio”; scrivere a mano significa invece “ehi, è arte”, agli occhi di molti forse suona come “mi dò un tono”. Eppure penso a quanti manifesti letterari sono nati nei bar, quanti rivoluzionari hanno scritto in una locanda il proprio credo, quanti criminali hanno pianificato le loro rapine, quanti co-spiratori hanno co-spirato. Ecco che arriva la considerazione sociale sui videopoker: c’erano anche i giochi d’azzardo, ma a vincere sempre non era lo Stato.

Segui questo esperimento di scrittura, e molti altri testi di vari autori, su Il gioco del mondo

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