martedì 29 luglio 2014
Quella fotografia
“Il meccanismo della maschera,
più o meno invariabilmente associato alla tematizzazione del volto,
non fa che consolidare e indirizzare ulteriormente
il funzionamento di quel processo:
lo schermo è appunto ciò su cui qualcosa si proietta visibilmente
ma è anche ciò che copre e occulta.”
[da L’immagine che siamo, Di Monte / Riedmatten, Carocci]
Mettiamo da parte, per il tempo di qualche pagina, la differenza tra ciò che non si può fare e ciò che non si deve fare. Non dovremmo sottovalutare la questione del dovere, ma possiamo provare a fingere che non sia rilevante, nel mondo che stiamo andando ad immaginare. E’ un esercizio di estro, se ne fanno molti, consapevolmente o meno, aggiungiamone un altro, questo. Siamo in laboratorio, è tutto sotto controllo, non può accadere che il risultato del nostro esperimento abbandoni questo luogo e si diffonda nel mondo. Abbiamo indossato camici bianchi, maschere protettive, guanti. Dunque, tentiamo: premiamo il bottone, azioniamo la centrifuga, aggiungiamo l’additivo segreto, ed ecco che se ne va via la differenza tra cosa non si può fare e cosa non si deve fare.
Tolta questa differenza, possiamo coniare un neologismo: le cose che non si possono fare e quelle che non si devono fare ora si chiamano: non-si. Che siano cose che non si possono fare perchè impossibili per le leggi della fisica di questa parte di universo, che non si possono fare perchè non ne siamo (ancora) in grado, oppure che siano cose che non si possono nemmeno immaginare; e che siano cose che non si devono fare, perchè moralmente riprovevoli, oppure dannose per se stessi e per gli altri; non importa, ora si chiamano tutte cose che non-si. Stiamo ancora tutti bene? Successo qualcosa? L’esperimento è sempre nella sua teca a tenuta stagna, tutto bene. Che non vengano a saperlo quelli del Dizionario della Crusca, che abbiamo coniato un neologismo; al massimo lo faremo passare per una sigla, un’ abbreviazione di una formula, in ogni caso non-si resta qui, non verrà usato nell’italiano scritto nè tantomeno parlato.
Che sia un’aberrazione, è chiaro: affermare che non ci sia differenza tra una cosa che non si può fare per ragioni fisiche e una cosa che non si deve fare per ragioni morali rende incerto ogni successivo passo, proietta immediatamente la mente del lettore a tutte quelle azioni che non si dovrebbero fare ma si fanno, a tutte quelle cose che si desirano ma sono impossibili, a tutte quelle cose che immaginiamo possano accadere ma sono troppo lontane nell’orrore (oppure nella distanza geografica) per poter essere considerate; chiuse dentro quattro confini fatti di parole. Non importa, persistiamo nell’errore. Ora si chiamano tutte cose che non-si.
Premesso questo, è possibile immaginare un testo che non-si? Un’opera d’arte che non-si? Una musica che non-si? Una fotografia che non-si? Mi riferisco, in questo ultimo caso, a “quella fotografia”, che per qualche giorno è comparsa sui social networks: “quella fotografia” che i giornali mai si sarebbero sognati di pubblicare, che i canali televisivi non hanno mandato in onda per ovvie ragioni, “quella fotografia” che anche a cercarla in Rete sui motori di ricerca si fa fatica, “quella fotografia” che, così come è sbocciata (come un fiore velenoso) sulle bacheche di molti dei nostri contatti, condivisa e ri-condivisa, allo stesso modo è finita in fondo alla pagina, sotto centinaia e centinaia di altre notizie, indifferentemente, che siano cose stupide oppure intelligentissime, lodevoli e generose oppure immani perdite di tempo. Mi riferisco a “quella fotografia”.
Quella del bambino, palestinese, morto, con la testa in frantumi.
Una sola parola in meno nella frase precedente, e sarebbe stato tutto diverso.
Non sarebbe più stata quella cosa lì.
A questo punto credo che circa 2/3 dei miei abituali lettori abbiano smesso di leggere, e siano andati altrove per la Rete. Perchè se ne parla tanto ed in tutti i modi, di quello che sta succedendo a Gaza; perchè abbiamo fatto indigestione di opinioni e punti di vista, confutazioni e ri-confutazioni; perchè non sappiamo che cosa fare, e se vogliamo farlo; perchè ci è ben palese la nostra impotenza, oppure ci è stata ben nascosta la nostra possibilità di porre fine a qualcosa che, a prescindere da chi abbia torto e chi abbia ragione, umanamente ci ripugna; e per questo, forse, la quantità di informazioni ci aiuta ad esorcizzare, a tenere lontano, come un veleno che si prende a piccole dosi per poter sviluppare la necessaria resistenza, sempre che non accada a noi, prima o poi (ma a quel punto non saremo più spettatori, e non sarà più quella cosa lì).
Ogni considerazione politica, sociale e/o storica verrà lasciata fuori dai margini di queste pagine fatte di bit, non per un’infinità di ragioni bensì per una soltanto. E’ di “quella fotografia” e basta, che vorrei scrivere, per quanto lo trovi difficile, forse impossibile. Che sia un falso, che non sia una foto recente, che sia stata manipolata, che non si riferisca all’attuale conflitto, che non sia stata ritoccata ma costruita “scenograficamente ad arte” nella realtà, che chi l’abbia pubblicata avesse le sue ragioni, al netto delle ragioni di chi non avrebbe voluto vederla (davanti ai suoi occhi come a quelli degli altri), che siano chiari oppure subdoli gli intenti di diffondere una fotografia “come quella”; tutto questo appartiene ad un’altra fetta di mondo. Scriverò solo di “quella fotografia” che mi ha diviso tra: la tentazione di osservare a fondo, e quella di scorrere e basta, per non vedere l’orrore. Quando ho visto “quella fotografia” mi sono detto: “No, questa no, è una fotografia che non-si...” e mi sono fermato.
Sulla sinistra della fotografia c’è un braccio, forse di un medico (con una macchia di sangue sulla pelle, sangue non suo) che trattiene un uomo. Al centro della fotografia c’è quell’uomo, l’espressione del quale ci rende impossibile definirne con esattezza l’età, e potrebbe essere il fratello, il padre, un conoscente della vittima; e urla, ulula, ha la bocca aperta ma non si capisce se stia inspirando oppure espirando, parole oppure un urlo, muto oppure fragoroso. Sulla destra della fotografia c’è un bambino: disteso su un letto, forse d’ospedale, troppo pulito e ordinato, come se avessero appena adagiato il suo corpo; ha le braccia e le gambe abbandonate. Al posto del cranio, sulla parte posteriore e laterale, ha una voragine, rosa, rossa e nera. Non c’è quello che ci aspetteremmo: il cervello è andato perso, distrutto, asportato. Non ne vediamo nemmeno più il volto, in parte voltato, in parte spappolato, disperso.
E’ una fotografia che non-si: per l’effetto che ha, che vorrebbe avere, che dovrebbe avere; diffonderla forse significa avere troppa fiducia in un’intenzione, positiva o negativa che sia; avere la presunzione di sapere come andrà a finire; e invece l’effetto è incontrollabile, e qualora sia stata condivisa e ri-condivisa per ottenere uno shock nell’osservatore, una reazione inaspettata, anche in questo caso sui lunghi tempi che cosa si ottiene; forse di averla resa normale, sopportabile; e nemmeno si può dire che si possa in qualche modo, prima, preparare il pubblico, perchè “quella fotografia” colpisce l’emozione prima ancora dell’intelletto; un archetipo sepolto negli abissi umani, prima che si attivi una possibile reazione intenzionale.
Ecco che, per la forza stessa di “quella fotografia”, il mio scrivere vira in una direzione di giudizio. No, non è quello che voglio: servirebbe, basterebbe la fredda oggettività di un entomologo che studia uno scarafaggio trafitto da uno spillo? Il linguaggio piano, preciso, pulito, di un astrofisico che tiene una lezione sulle dimensioni delle galassie? E’ una fotografia, “quella fotografia”, che non-si. Eppure, è avvenuta: è stata scattata, messa in Rete, condivisa, ri-condivisa. Dunque, esistono cose in questo mondo che vanno contro il postulato del non-si, che stiamo provando a tenere in vitro nel nostro laboratorio immaginario. D'altro canto, si potrebbe affermare che sia importante che queste cose si vedano: il prezzo da pagare, per un commento intelligente, per un'idea sensata, per una crescita personale, è la superficialità di altri mille sguardi?
Il mondo fuori è un’eccezione a se stesso.
La morte, in qualche modo, resta uno scrigno chiuso. Non lo si può aprire a meno di non esserne risucchiati dentro, senza poterne uscire, senza poterla raccontare. Il suo è il mistero della prima persona: lascia spazio ad immaginazione, teorie, religione e scienza, crea territori di libertà dove ciascuno può ipotizzare. Si può speculare sul suo significato, sul suo aspetto, ma non sul contenuto reale. Un corpo senza vita mantiene un’identità; ci si separa dalla sua decomposizione in tempo per non vedere il materiale che riempie quell’identità. Quando la morte è presente, è presente nell’identità di un altro, e dunque non è la nostra. Ci si libera, ci si affranca, facendo ipotesi, da vivi.
Ma “quella fotografia” svela il gioco di prestigio. Mostra che cosa c’è dentro. Sottrae un’identità, e fa sì che al’interno di quel buco rosa, rosso e nero si possa immaginare la propria presenza, la propria fine. Mette a dura prova le proprie convinzioni sulla sopravvivenza dopo il termine ultimo, smonta i pezzi di un meccanismo, ne mostra gli ingranaggi, ciascuno dei quali non contiene l’identità dell’organismo biologico vivo, e la cui somma non restituirebbe comunque una parvenza di “rispettabilità” all’identità. Ecco, è tutto qui: si scarta il pacchetto, e non si trova niente di quello che si era immaginato. E la carta del pacchetto, che fino a pochi istanti prima era il regalo, è puro accidente passeggero. Senza senso.
“Quella fotografia” che “non-si” pone al centro del discorso una testa, e poi la sottrae, lasciandoci soli, di fronte ad un contorno; disintegra la testa, dunque anche il pensiero, ne lascia un buco vuoto, pone al cospetto dell’essere una cosa fatta di materia che pensa; e senza il cui supporto non se ne possono concepire più, di pensieri. E’ una damnatio memoriae ma al contrario: ecco, questo è il corpo, qui c’era materia cerebrale, ma ora non c’è più. Potrebbe esserci chiunque qui dentro, quindi: tutti. I responsabili diretti oppure indiretti di “quella fotografia” (che non-si) hanno ottenuto un effetto più perverso della cancellazione dell’identità: hanno messo in luce il suo annichilimento, la sua poltiglia informe, ne hanno tracciato un preciso profilo materico, dandole un peso, un colore, una consistenza, e nulla più resta dei milioni di mondi che il pensiero di quell’identità poteva (e avrà sicuramente) concepito durante la sua esistenza biologica. Altri diranno: non confondere la fotografia con l'atto che racconta. La colpa è altrove, lo scatto testimonia.
Le maschere funerarie; i busti in marmo; i ritratti su tela; il “ti prego, non in faccia” del condannato a morte dalla mafia che implora affinchè la sua immagine non venga deturpata, almeno quella, e sia riconoscibile dai familiari, quando sarà cadavere; quel fotografo di cui non ricordo il nome, che si recò all’obitorio per fotografare che cosa ci fosse dietro al volto e che disse, tempo dopo: “solo io so quanto mi è costato scattare quella fotografia”; l’ultimo gesto disperato dei passeggeri del volo abbattutto nei cieli dell’Ucraina, le mani portate al volto, per nasconderlo, per sottrarlo all’impatto e alla distruzione; ecco, si intravede un percorso che termina, in questi giorni, con “quella fotografia”, che mette in luce tutto il niente, dei carnefici e delle vittime, su social networks che accumulano dati senza ricordarsene; una sorta di allenamento al combattimento che promette (mentendo) di rendere forti, resistenti alla vita reale; e invece sclerotizza i muscoli e li rende enormi, appariscenti, come nel body-building più estremo; muscoli totalmente inutili alla vita reale, fuori dalla Rete. Un'oscena selfie di grado zero.
“Quella fotografia” potrebbe essere la locandina del film di un possibile futuro verso il quale ci stiamo avviando (e solo da spettatori): il film della trasparenza totale, assoluta; così nociva perchè non permette all’essere umano (come lo conoscevamo, come vorremmo che restasse, come non ci rendiamo conto che ci è già stato in parte o del tutto sottratto) di muoversi in una sfera privata, incerta, dunque possibile, in uno spazio sconosciuto e misterioso dove sia ancora probabile, sognabile qualcosa; dunque dove sia possibile essere liberi. Invece, è tutto lì, presente, trasparente, niente di più, “quella fotografia” non nasconde nulla, palesa il nulla, esposto come un cranio svuotato.
E la libertà della Rete, di fronte a “quella fotografia”, si configura così: c’è solo il pulsante per mettere un like, oppure passare oltre senza fare nulla; il pulsante di non-like non è previsto; non è contemplato il pulsante del non-si. Buona visione di tutto un mondo che non-si: non importa se non si deve, non si può. Non-si, ma eccolo lì. Lo dice anche il neologismo stesso: non, cioè prima il no; poi il sì, si può, si deve; infine la compresenza di entrambi, dove nè il “non” nè il “sì” hanno più un senso.
“L’anima umana ha palesemente bisogno di sfere
nelle quali possa sostare in sè, senza lo sguardo dell’Altro:
è dotata di impermeabilità. Un’illuminazione totale la incendierebbe
e provocherebbe una particolare forma di burnout spirituale.
Solo la macchina è trasparente.
Spontaneità, evenemenzialità e libertà,
che caratterizzano generalmente la vita,
non ammettono trasparenza.”
[da La società della trasparenza, Byung-Chul Han, Nottetempo]
domenica 20 luglio 2014
EDS | 6 di 14 | Al supermercato
EDS - Esperimenti di scrittura 6 di 14
AL SUPERMERCATO
ovvero prima li bruciavamo, adesso li congeliamo.
Si scriverà (mi viene spesso da scrivere “si parlerà”, ma...) di supermercati, ipermercati, mercatoni e affini. I nomi già sono una violenza, obbligano lo scrittore a scriverlo, che sono, cioè vogliono essere: super-, iper-, -oni. Devi chiamarli così, altrimenti come lo dici. Esisterà un nome tecnico non usato nella parlata volgare? Un nome di cosa non dovrebbe contenere simili superlativi, addirittura assoluti! si lasci libero lo scrittore (ma chiunque, in fondo) di poterli definire con un vocabolo di grado zero, e poi ac-crescerlo oppure de-crescerlo secondo l’esperienza che ne fa; invece (chi controlla il linguaggio controlla il mondo) il nome, prima ancora dell’esserci dentro, di scriverne, trascina lo scrittore (ma chiunque, vedi sopra) in un’intrinseca valutazione semantica, non voluta, circon-voluta su un significato aggregato. Sentite come suonerebbe diverso se si chiamassero: mercati-a-carrello.
Invece super-iper-one è un nome che dichiara già nel suo segno di battesimo un piano di battaglia, una volta si chiamava il Sindaco e il Parroco all’inaugurazione di una nuova azienda, dunque davvero battesimo; un piano di battaglia, come se uno stato si chiamasse Antifrancia (esistono stati con nomi simili?), che non nasconde il suo voler essere diverso/contro/meglio del suo antagonista, eppure... esiste solo in funzione dell’accrescitivo: non è qualcosa di diverso, di alternativo, bensì solo il suo avversario, quella è la sua ragione d’essere, una cosa con un accrescitivo davanti o dietro. Meglio di che? lo scrittore si chiede: meglio forse del mercato-piazza, che sia un paragone di dimensioni. Poi gli vengono in mente mille esempi di mercati-piazza molto più grandi, più assortiti di quelli che si vogliono far chiamare super-iper-oni. Forse per il fatto che sono al coperto? Nemmeno, ci sono mercati-piazza anche coperti. Forse perchè al posto di tanti proprietari di banchi diversi tra di loro c’è un solo possidente di tutta la baracca? Questo li rende super-iper-oni?
Prima di sottoporsi all’esperimento di scrittura al supermercato, allo scrittore viene un dubbio: tra le tante fiction e serie televisive non ne esiste nessuna ambientata in un supermercato? Forse sì, gli sembra di ricordare, era una cosa che trasmettevano alla tv catodica degli anni ottanta, poteva definirsi pieno boom economico? Con il senno di poi. Ah, e poi c’era quell’altra cosa ambientata in un c’entro commerciale. Lo scrittore si rifiuta di scriverne qui il titolo. Tuttavia, lo scrittore vuole principiare pulito il suo esperimento di scrittura al supermercato, sa che ne sono già state scritte migliaia, di analisi socio-filo-economiche sul fenomeno dei supermercati (e dei c’entri commerciali); e altrettante analisi a seguirne l’evoluzione, dei super-iper-mercat-oni, che hanno cambiato faccia, sono diventati friendly, alcuni addirittura sono riserve dove marchi di qualità (parole chiave: territorio, gusto, salute) fanno sfoggio delle loro piume di pavone, per essere comprati, per giustificare un costo. Un amico diceva: perchè la qualità deve essere solo per i ricchi? Perchè i poveri devono mangiare schifezze?
Comunque, per scrivere al supermercato lo scrittore deve: accettare il fatto che sedersi da qualche parte (non ci sono posti a sedere) significa essere guardato male oppure interrogato continuamente dai commessi se ha bisogno di qualcosa oppure si sente bene; oppure impratichirsi nell’arte del carrello come punto d’appoggio. A questo scopo si presta bene il seggiolino per bambini integrato al carrello: ecco perchè mia madre, quando – me presente – parlava con qualcuno di una parente oppure di una conoscente che aveva partorito, diceva “ha comprato un bambino”. La cicogna ha messo in piedi una start-up di successo. Il seggiolino per bambini, con un po’ di pratica, può diventare un buon piano di scrittura per lo scrittore. La sua opera è come un figlio, per lui: dunque il diario/quaderno/foglio sul seggiolino per bambini è nella posizione ideale. Lo scrittore nota: guardare il diario/quaderno/foglio appoggiato sul seggiolino per bambini integrato al carrello comporta anche avere la visione del contenuto del carrello, vuoto, semivuoto, semipieno o pieno che sia. Lo scrittore è qui per scrivere oppure fa di necessità virtù e, già che c’è, provvede a fare la spesa? Si possono scegliere le parole per scrivere mentre si scelgono i prodotti per vivere? Con un po’ di fortuna, se lo scrittore si impratichisce con lo scrivere deambulando con il carrello della spesa, il suo diario/quaderno/foglio verrà scambiato per una lista della spesa, e nessuno lo importunerà. La lista ha una sua giustificazione sociale, il periodare no.
Tuttavia, il fantasma del grande ma-in-realtà non tarderà a tormentare lo scrittore. Il seggiolino per bambini integrato al carrello è comodo e permette alla madre/padre di controllare il figlio, e che così non si allontana, ma-in-realtà serve a prolungare il termpo di permanenza della madre/padre presso il super-iper-mercat-one (e magari comprare, altro, e altro ancora); madre/padre che non dovranno sentire le lamentele del figlio sono stanco di camminare e dunque non saranno indotti a tornare a casa. Oppure: i prodotti sugli scaffali sono tanti, e molti anche scontati, ma-in-realtà a casa non resterà nulla della sensazione di abbondanza che la pienezza degli scaffali trasmetteva, i prodotti spesso sembrano in concorrenza tra di loro, ma-in-realtà sono prodotti dalla stessa multinazionale alimentare, e se molti sono scontati significa che da qualche parte (prima, a prezzo pieno) c’era un margine di risparmio per me che invece è diventato guadagno per qualcunaltro. Oppure: le casse automatiche sono pratiche e veloci ma-in-realtà sono posti di lavoro persi per qualcunaltro (non quello della frase precedente, ovvio). E’ chiaro, è evidente che le cose stanno così, nessuno lo negherebbe mai; eppure il potere del super-iper-mercat-one è quello di ricevere dal suo pubblico un’assoluzione: il Grande Perdono per il suo ma-in-realtà. Il risparmio val bene una messa (in carrello).
Allo scrittore che scrive al super-iper-mercat-one farà invece comodo (ma con un retrogusto di inquietudine) il fatto che: mentre al mercato-piazza capita di fermarsi e chiacchierare, perchè si incontrano persone (cosa che lo interromperebbe nella scrittura), al super-iper-mercat-one nessuno parla con nessuno, nemmeno per chiedere di spostare un po’ il carrello quando non riesce a passare con il suo. D’altro canto, in chiesa non si parla; al cospetto della perfezione geometrica di forme e colori e disposizioni e dell’abbondanza di beni delle corsie un certo religioso silenzio si impone al passante-spingente-il-proprio-carrello; silenzio religioso sottolineato (come canti gregoriani in una cattedrale) dalla musica onnipresente, ossessiva, vuota di significato, che pervade l’aria, lo spazio, la mente; musica ambientale che serve a rilassare ma-in-realtà ha il preciso scopo di impedire il pensiero profondo, l’introspezione, è una cortina fumogena tutt’intorno al campo da gioco del super-iper-mercato-one. Lo scrittore cerca di immaginare: un supermercato senza musica ambientale? Provate a vedere che cosa vi succede, a farvi un giro in un super-iper-mercat-one con i tappi nelle orecchie.
Tutti al super-iper-mercat-one sbirciamo dentro ai carrelli la spesa altrui; lo scrittore che scrive al super-iper-mercat-one sbircia dentro ai carrelli altrui, e prova ad immaginare quale potrebbe essere la spesa di alcuni personaggi della letteratura. Possiamo immaginarci Kafka, Cortazar, Majakovskij, Verlaine al super-iper-mercat-one? Avrebbero potuto essere assunti come commessi? Come avrebbero reagito ad una rapina a mano armata alle casse mentre che aspettavano in coda? Anche loro, come lo scrittore che scrive al super-iper-mercat-one, avrebbero avuto quella strana sensazione, nel dover cercare l’uscita senza acquisti, oppure passare alla cassa giustificadosi con la cassiera per non aver comprato nulla?
Lo scrittore che scrive al super-iper-mercat-one sospetta anche che, a seconda delle corsie e dei prodotti esposti, possa cambiare la sua prosa. La zona prodotti per la casa avrà un impatto diverso sulla sua scrittura rispetto a quella frutta e verdura. Quanto tempo è lecito stare al super-iper-mercat-one gironzolando con un carrello (magari vuoto) prima che l’uomo che sta dietro alle telecamere si insospettisca, e si prepari per controllare le sue tasche da scrittore all’uscita? E i cartellini dei prezzi: una volta erano scritti e sostituiti a mano, oggi sempre più spesso si trovano piccoli display con il prezzo trasmesso a distanza, un click e il costo di tutti i pacchi di pasta sale oppure scende di un’euro. Mi chiedo come mai un hacker non abbia ancora provato ad intrufolarsi nella Rete di un super-iper-mercat-one per regalare uno sconto a centinaia di pensionati cassaintegrati interinali tempo-determinati che contano le monete prima di allungare la mano verso una scatola di biscotti. Sarebbe una buona trama per una storia.
Se il parallelo con altri luoghi di trascendenza e di estasi (come le chiese, i bagni turchi oppure le piramidi maya e via dicendo) solletica lo scrittore, non potrà fare a meno di considerare che la meditazione proposta dagli officianti sacri degli iper-super-mercat-oni è da svolgersi in piedi ed in movimento: sei di passaggio, il tuo tempo è denaro (tuo ma anche nostro, pensano gli officianti sacri), la precisione razionale con cui i prodotti sono esposti e messi in sequenza uno dopo l’altro serve a guidarti verso la cassa e dunque all’uscita e al ritorno alla tua casa (non c’è avventura nel percorrere il bosco del supermercato, tutto è rassicurante, è un non-viaggio). Non devi fermarti: devi prendere e passare oltre. Accetta il transeunte su ruote di carrello ben oliate e, per cortesia, non intralciare gli altri che meglio di te scorrono lungo le corsie e attraverso la barriera delle casse. Un super-iper-mercat-one che lo scrittore ha visitato tempo fa esponeva un enorme cartello rosso con una scritta bianca: FRESH, FAST, FRIENDLY. Fresco, veloce, amichevole. Sarà fresca, veloce ed amichevole la scrittura dello scrittore che scrive al super-iper-mercat-one? Anche quando gli capiterà di passare davanti agli scaffali di libri? C’è un filo sottile che lega i roghi dei libri di neanche tanto tempo fa, ai libri esposti davanti al reparto surgelati.
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giovedì 10 luglio 2014
Il trattore del signor Orban Voorwaardelijk
IL TRATTORE DEL SIGNOR ORBAN VOORWAARDELIJK
(se fosse esistito)
ovvero il grave problema della gravità
ovvero entropia portami via
Secondo alcuni, due sono i poli gravitazionali che attraggono l’arte verso il suo futuro: le nuove tecnologie, e l’arte come relazione tra le persone e le cose. Ci sono poi i catastrofisti: a dar retta a loro, nella migliore delle ipotesi torneremo a dipingere le pareti delle caverne. Ecco, forse da lì hanno avuto origine molte cose. Ma andiamo con ordine.
Il critico d’arte olandese Erik Voorwaardelijk proporrebbe una chiave di lettura dell’arte “a venire” sconosciuta ai più, ma non per questo non interessante. Chiave di lettura sconosciuta ai più perchè certo non si può dire che Erik Voorwaardelijk sia un critico d’arte, anzi non si può proprio dire che sia, dal momento che non esiste nessuno con questo nome (oppure, se esiste, le probabilità che esista e sia un critico d’arte sono molto basse); ma considerando che “Voorwaardelijk” in olandese significa “Condizionale”, il condizionale è d’obbligo per esporre la sua teoria sull’arte “a venire”.
Per tracciare un profilo di quella che sarà l’arte da qui a cent’anni, Voorwaardelijk partirebbe da molto lontano nel tempo, mantenendo lo sguardo fisso su un certo evento, e procedendo poi all’indietro verso il presente e dunque l’avvenire; camminando all’indietro ma verso il futuro; e questo giustificherebbe anche una certa incertezza nel dove vorrebbe andare a parare, dal momento che camminare all’indietro non permette di evitare gli ostacoli e garantisce, alla lunga, spettacolari capitomboli. Tuttavia, date le premesse, certo non si può dire che l’inciampo sia un evento imprevisto, messo sinceramente in conto, e di questi tempi non si può disdegnare la sincerità di Voorwaardelijk (se esistesse).
Se la storia dell’arte ha le sue precise ragioni per giustificare l’uso, da un certo punto in poi, della cornice per incorniciare le opere d’arte – e basterà sfogliare distrattamente molte pubblicazioni in merito per farsi un’idea fin troppo precisa della bontà di tali spiegazioni – Voorwaardelijk (se esistesse) proporrebbe invece una spiegazione alternativa, che molti potrebbero paragonare ad un ramo evolutivo non andato a buon fine, date le premesse, ma pur sempre un ramo interessante, certo destinato ad estinguersi; ma che cosa non si estinguerà, alla lunga? Se è vero che un bel gioco dura poco, la resistenza di una teoria nel corso del tempo non è un parametro che ne determina immediatamente la sua veridicità. Nè, tantomeno, la sua bellezza. E’ preferibile una lunga bugia insipida oppure una breve bugia folgorante?
Alle grandi illusioni, e successive disillusioni, alle quali la razza umana sembra non volersi mai abituare – a cominciare dalla Terra al centro dell’universo, fino alla teoria della Mano Invisibile che, mi dicono, fa gli interessi della comunità proprio grazie all’egoismo individuale, incredibile! – molti apprezzerebbero (sempre se esistesse) la meravigliosa breve vita da farfalla della teoria di Voorwaardelijk a proposito del perchè gli artisti, o chi per essi, abbiano iniziato a fare uso della cornice attorno al quadro, e cioè: per nascondere il bordo della tela, lo spessore dell’opera, quel piccolo lato di taglio (oppure taglio di lato) che non si dipinge ma: c’è, e rivela che dietro a tutti gli strati di colore più evocativi di cui un artista è capace c’è pur sempre un espediente, ad esempio un pezzo di stoffa teso tra quattro assi di legno.
Proprio per questa ragione, la teoria di Voorwaardelijk a proposito dell’arte “a venire” sarebbe stata definita da molti (se fosse esistito un Voorwaardelijk critico d’arte olandese a pensare una simile teoria) quella dello spigolo. La Teoria dello Spigolo, scriviamolo con le maiuscole e diamole la dignità che si meriterebbe (sempre se esistesse). Da questa semplice considerazione, cioè che: denudata della cornice, l’opera rimane nuda e l’osservatore rischia di vedere gli spigoli non dipinti, Voorwaardelijk prenderebbe spunto per costruire una metafora che riguarda tutta l’arte, e non solo quella visiva su tela.
Voorwaardelijk (se esistesse) affermerebbe che un osservatore, di fronte ad un’opera d’arte, ha una certa probabilità di accorgersi degli spigoli dell’opera stessa. Questa epifania della reale materia dell’opera d’arte, questo disvelamento di che cosa c’è dietro, interromperebbe la narrazione e il flusso di sensazioni che l’artista, attraverso l’opera, avrebbe voluto trasmettergli, trasportandolo al contrario e immediatamente su un altro piano di comprensione. Le probabilità che l’osservatore si accorga degli spigoli di un’opera d’arte rientrano nel campo di indagine della statistica descrittiva.
Se lanciamo una moneta, ci sono tot possibilità che (lo sguardo dell’osservatore) cada su una faccia e tot che cada sull’altra. Ciascuno di noi avrà provato almeno una volta nella vita ad ipotizzare che la moneta resti in equilibro sul suo spigolo: nessuno ha mai assistito ad un evento del genere, ma una remota possibilità esiste. Passo successivo: prendiamo ora in considerazione un dado. Lanciando un dado, ci sono tot possibilità che (lo sguardo dell’osservatore) cada sulla faccia numero 1, oppure sulla faccia numero 2, oppure sulla 3, sulla 4, sulla 5 ed infine sulla faccia numero 6. Notiamo però che il numero di spigoli, data la diversa figura (di geometria solida) rappresentata dal dado, è aumentato! C’è una remota possibilità che il dado (e lo sguardo dell’osservatore) si fermi sullo spigolo tra la faccia numero 1 e la faccia numero 2, a cui aggiungiamo la remota possibilità che il dado si fermi (e lo sguardo) sullo spigolo tra la faccia numero 3 e la faccia numero 4, e via dicendo.
Voorwaardelijk affermerebbe (sempre se esistesse): aumentando il numero di facce del solido osservato, aumenta proporzionalmente la remota possibilità che accada di osservare uno degli spigoli del suddetto solido. Più facce = più spigoli. Analogamente, più un’opera d’arte ha sfaccettature, cioè possibili punti di vista ed interpretazioni, più aumenta la possibilità che l’osservatore incappi in uno dei suoi spigoli.
In uno dei suoi scritti, Voorwaardelijk affermerebbe (se esistesse) che l’idea iniziale per la Teoria dello Spigolo gli sarebbe venuta quando, aiutando suo padre in campagna (il signor Orban Voorwaardelijk), questo gli avrebbe detto che preferiva tenersi il suo vecchio trattore invece che acquistarne uno moderno, pieno di fronzoli e funzionalità inutili, perchè: meno ingranaggi ha un motore, meno possibilità ci sono che si rompa uno di essi e che quindi il trattore smetta di funzionare.
Ma Voorwaardelijk non si sarebbe fermato qui (se fosse esistito e avesse avuto la possibilità di arrivare a concepire una simile teoria), si sarebbe infatti posto la domanda: sono in grado di immaginare un solido levigato a tal punto da non presentare spigoli; e dunque per analogia: produrre un’opera d’arte a tal punto levigata da assicurare all’osservatore che (pur senza il trucchetto di prestigio della cornice) non correrà il rischio di incappare in uno spigolo; e quindi non spezzare l’incanto dell’osservazione, il coinvolgimento nella narrazione, la compartecipazione dello spettatore nell’opera dell’artista?
“Si chiama sfera”, sarebbe stata la laconica risposta di un qualsivoglia vecchio barbagianni dell’arte contemporanea (questi, invece, a differenza di Voorwaardelijk, esistono).
Voorwaardelijk (se fosse esistito) si sarebbe indignato per una tale obiezione, mirata a far crollare su se stessa, come un castello di carte, tutta la Teoria dello Spigolo. La sfera è sempre uguale, che sia piccola, oppure che sia grande; offre un solo punto di vista, non c’è sfera che non differisca sostanzialmente da un’altra se non per dimensioni; dunque per analogia: sarebbe come dire che esiste una sola opera d’arte e un solo punto di vista; e allora perchè fare arte. E soprattutto: l’evidenza empirica della realtà relega la contro-teoria della sfera (scriviamolo in minuscolo e stiamo dalla parte di Voorwaardelijk, che tanto non esiste e dunque non ce ne verrà nessun male) ad un grossolano tentativo di discredito; non ci sono due artisti che possano realizzare, anche intenzionalmente, la stessa identica opera d’arte, suvvia.
Un indizio per la risoluzione di questo dilemma (il solido senza spigoli, l’opera d’arte senza spigoli), che Voorwaardelijk avrebbe tentato di sviscerare nel corso dei suoi ultimi sei anni di vita, sarebbe giunta (se fosse esistito lui e questo problema) nel 2002, tra le righe di un’intervista di Luther Blissett al Professor Bad Trip, sulle pagine de “L’Almanacco Apocalittico” del mese di marzo:
"A causa della forza di gravità e per motivi economici di razionalizzazione dello spazio, la maggior parte delle case, dei palazzi, delle gallerie e dei musei sarà sempre costruita con pavimenti orizzontali e mura verticali sulle quali appendere ogni sorta di artefatto bidimensionale; in questa funzione sempre attuale, non ci sono differenze tra un quadro, una grafica, un poster, una fotografia, ecc."
Eccola là, la pista che Voorwaardelijk (se fosse esistito) avrebbe cercato tanto a lungo! La forza di gravità. Quella stessa forza di gravità che avrebbe mantenuto al suolo il trattore di suo padre (la sua prima fonte di ispirazione, sempre se fosse esistito), la stessa che dalle grotte di Lascaux, per passare ai castelli medievali e alle moderne gallerie d’arte, obbligava lo spettatore ad osservare opere d’arte appese o appoggiate al suolo, era quello l’indizio mancante che fino ad allora gli aveva impedito di portare a compimento la sua Teoria dello Spigolo. Certo, grazie alla forza di gravità si era evoluta la vita su questo pianeta (e peraltro esisteva un pianeta); ma era la stessa forza maligna che lo avrebbe angustiato con i dolori articolari dovuti all’età. Se Voorwaardelijk fosse esistito e dunque avesse potuto provare dolori articolari. In una delle sue pagine più toccanti, avrebbe scritto: “se smettessi di esistere io, smetterebbe di esistere anche il dolore che provo; dunque il dolore che provo esiste se ci sono io, e quando non ci sarò più io cesserà il dolore”. Ma non l’ha scritto, dunque a Voorwaardelijk è stato risparmiato di soffrire per quella grave forma di artrite.
Dunque, per rendere inattaccabile la sua Teoria dello Spigolo, Voorwaardelijk avrebbe dovuto provare a sottrarre dalla sua equazione la forza di gravità; per farlo, avrebbe dovuto capire innanzitutto in che cosa consiste questa forza. Si sarebbe avvicinato allo studio della fisica, con rinnovato impegno – nonostante l’età e la sua malattia – avrebbe ripreso a seguire conferenze, leggere volumi che richiedevano competenze molto specifiche, si sarebbe appassionato all’augmented reality, la realtà aumentata costruita ad hoc dai programmatori di software che, naturalmente, ignorava la forza di gravità, permettendo di sospendere a mezz’aria immagini e proiezioni di opere d’arte.
Con lo spirito metodico che l’avrebbe contraddistinto, Voorwaardelijk (se fosse esistito) avrebbe studiato le teorie di Platone, di Aristotele e di Keplero; avrebbe superato le debolezze del modello di Newton grazie alla teoria della relatività generale di Einstein; di questo, avrebbe apprezzato enormemente l’affermazione che la gravità non è una forza come tutte le altre, bensì una proprietà della materia che deforma lo spazio-tempo. Ecco! L’opera d’arte deforma lo spazio-tempo! Sia nella sua struttura materiale, che nella sua struttura di significato.
Dunque, se esiste l’opera d’arte, avrebbe concluso Voorwaardelijk, e l’opera d’arte è materiale, è insito nella sua struttura fisica produrre deformazioni spazio-temporali; e lo spigolo, beninteso, sarebbe stato inevitabile. La Teoria dello Spigolo avrebbe recitato così: “Non si dà opera d’arte senza spigoli”, laddove per spigoli si sarebbe inteso sia un bordo materiale dell’opera stessa, sia una crepa attraverso la quale era possibile che lo sguardo dell’osservatore ne cogliesse la verità materiale dietro celata, la struttura fisica di supporto.
L’arte sarebbe stata tale, dunque, proprio perchè rischiosa. Niente rischio, niente arte.
Erik Voorwaardelijk, se fosse esistito, sarebbe morto prima di conoscere la recentissima teoria di un suo connazionale, il fisico olandese Erik Verlinde, che (invece esiste e) afferma: “la gravità è spiegata in ragione di una differenza nella concentrazione di informazione nello spazio vuoto che separa e circonda due masse. La gravità è quindi una forza entropica, l'effetto di una causa esistente ad un livello più profondo della realtà microscopica.” Forse, Voorwaardelijk avrebbe potuto scrivere, per analogia: ogni opera d’arte genera entropia, pur cercando di perseguire l’ordine. Ma non lo scrisse, perchè non è esistito, così come non scrisse nulla di tutto ciò che è stato raccontato sopra. D’altro canto, gli fu risparmiato, non essendo mai esistito, di assistere allo scempio causato dalla tendenza all’entropia dei giornalisti, che riportarono sui quotidiani in modo troppo semplicistico, e senza averla capita, la teoria di Erik Verlinde, intitolando: “la gravità non esiste”.
Se così fosse, niente gravità, niente materia, niente trattore, niente rischio, niente arte. Voorwaardelijk aveva ragione, pur non essendo esistito.
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